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  Aardvark   - Questa band britannica originaria delle Midlands porta il nome in lingua afrikaans dell'oritteropo ("maiale di terra"), e ha lasciato un unico disco alle cronache del rock prima di far perdere le tracce. Paul Kossof e Simon Kirke fecero parte del gruppo poco prima di fondare i Free, ma è una delle poche informazioni riguardanti questa vera meteora della musica inglese. Il quartetto, guidato dal cantante Dave Skillin che firma sette degli otto episodi in scaletta, realizza l'album "Aardvark" () nel 1970 per l'etichetta Deram Nova e si fa notare soprattutto per l'assenza in organico di un chitarrista, così che il ruolo dominante è ricoperto dalle tastiere di Steve Milliner, ben assecondato però da un bassista estremamente valido come Stan Aldous. Fin dall'iniziale "Copper Sunset" la formula si mostra rodata a puntino: l'organo distorto e il basso di Aldous guidano le danze insieme al batterista Frank Clark, mentre il canto solista aggiunge la giusta enfasi al motivo. A tratti quello della band suona quasi come un hard rock grintoso e vagamente cupo, ma senza la chitarra solista. Un timbro più oscuro, con la voce solista filtrata ad arte, trionfa in "The Greencap", fitta di lunghe variazioni organistiche e un lavoro non banale della sezione ritmica. Più melodica è invece "Very Nice Of You To Call", con un refrain ipnotico cantato a dovere da Skillin e con Milliner che si destreggia stavolta al pianoforte con un tocco elegante di sicura presa: è uno di quei motivi che si fissano in testa al primo ascolto, come la seguente "Many Things To Do", seppure più tumultuosa sull'organo e il basso che rimbomba inesausto. La sequenza offre anche un paio di pezzi più lunghi ed elaborati: ad esempio "The Outing-Yes", con la voce camaleontica in uno schema ossessivo, tirato allo spasimo, tra suoni dissonanti e un basso ancora protagonista con il vibrafono in evidenza accanto ad un organo gotico, dilagante, di grande effetto. Ci sono spazi d'improvvisazione e spezie di ascendenza psichedelica, in un insieme ad alto tasso sperimentale che denota ambizioni non banali da parte del quartetto. Lo conferma anche la traccia finale, "Put That In Your Pipe And Smoke", che spinge subito sui ritmi indiavolati di basso e batteria, mentre lo scatenato Milliner tira fuori dall'organo suoni di ogni tipo: pathos, grinta e senso del ritmo sono il sale del pezzo e dell'intero disco. Anche se durante l'ascolto vengono in mente E.L.P. e formazioni simili, bisogna dare atto agli Aardvark di sapersi destreggiare con certi elementi-base in maniera piuttosto personale, e di avere più frecce al proprio arco: basti citare "Once Upon A Hill", quasi una ballata folk che cresce s'una voce nostalgica cullata da organo, flauto e il quieto pulsare del basso, senza la furia ritmica che connota il resto della sequenza. Il gruppo rientra nell'ombra quasi subito dopo la pubblicazione del disco, senza destare interesse nell'affollata scena inglese del tempo, e l'unico a restare nell'ambiente è proprio il cantante Dave Skillin, che collabora con gli Home. Varie le ristampe oggi disponibili, come quelle di Esoteric, Keyhole Records e Tapestry (vinile).

"Aardvark"

  Ache   - Una formazione danese di buon livello formata a Copenaghen nel 1968. Il quartetto, che comprende i due fratelli Olafsson, esordisce nel Febbraio 1970 con l'album "De Homine Urbano" (), composto da due lunghe suites. La prima, omonima, fu scritta per un balletto ed è infatti interamente strumentale: fresca e piuttosto fluida nella scrittura, esalta la notevole verve del gruppo alle prese con una musica di stampo barocco e sinfonico, proposta con ammirevole personalità. Ottima la vena del tastierista Peter Mellin, i cui spunti all'organo sono integrati dalla brillante chitarra solista di Finn Olafsson: tra i dieci momenti della suite, che si evolve tra ficcanti accelerazioni e un eccellente lavoro al basso di Torsten Olafsson, spiccano la marziale cadenza di "Soldier Theme" e poi "The Dance of the Demons". L'altra suite è "Little Things", che include anche parti vocali in inglese e mostra una maggiore propensione a un rock più sanguigno, con la chitarra elettrica protagonista insieme agli spunti sempre briosi del tastierista. E' un esordio davvero buono, seguito dal 45 giri "Shadow of a Gipsy", una splendida ballata che riscuote un grande successo in molti paesi (Francia soprattutto) e fa da traino al secondo album "Green Man", uscito nel 1971. Più vario e melodico rispetto al precedente, è una raccolta di sette brani che, sia pure con qualche momento meno riuscito (come la cover di "We can Work It Out" dei Beatles), conferma il talento della band danese. Un'atmosfera psichedelica connota l'apertura di "Equatorial Rain", con l'organo e la voce di Torsten in evidenza, prima di una vivace sarabanda ritmica basata sul grande lavoro di Glenn Fisher alla batteria. Affascinante la minisuite "The Invasion", scandita da pianoforte, organo e una chitarra elettrica molto acida, con il coro di supporto al canto solista. La title-track si apre con chitarra acustica e pianoforte prima di prendere quota s'un corposo tema melodico, mentre "Sweet Jolly Joyce" è una frizzante rock-song che alterna pieni e vuoti strumentali sotto la guida dell'organo di Mellin. La band si scioglie nell'estate del '71, ma nel 1975 Finn Olaffson e Peter Mellin sono il perno di un rinnovato sestetto che realizza l'album "Pictures From Cyclus 7" (1976). Ancora ben suonato, il disco sceglie una spiccata linea melodica che rimarca lo stacco col passato. In evidenza le voci dei nuovi Stig Kreutzfeldt e Johnnie Gellett, ad esempio nell'iniziale "Cyclus 7" o nella bella "Still Hungry". Intermezzi di chitarra acustica ("Still Registering") si alternano a sognanti ballate come "Our Lives", con le tastiere sempre in primo piano. Rock e melodia trovano un gradevole punto d'incontro nella finale "Expectation", con il piano e il synth a dettare i tempi, e la chitarra solista che s'inserisce bene nello schema vocale. Il successivo disco, "Bla Som Altid" (1977) è il primo cantato in danese, ma anche l'ultimo degli Ache. Il gruppo suona ancora dal vivo fino al 1980, e il più attivo dopo lo scioglimento resta il chitarrista Finn Olafsson. Altre notizie nel sito ufficiale.

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"De Homine Urbano"

  Acintya   - Nonostante il lento declino in Europa del progressive, l'ultimo scorcio dei Settanta vede uscire allo scoperto diverse formazioni francesi, e tra loro gli Acintya: il nome in sanscrito significa "l'inconcepibile" e designa il dio supremo dell'induismo indonesiano. Originario di Nancy, nella regione del Grande Est, il gruppo si accasa con la piccola label SRC, con sede proprio nella città lorenese, e realizza il suo primo e unico album intitolato "La cité des Dieux oubliés" () nel 1978. Il quartetto può vantare un valido tastierista di scuola sinfonica come Philippe de Canck che firma tutto il materiale, ma il contributo del violinista Philippe Clesse non è certo da meno nell'economia del suono: lo si vede in tutti i tre episodi dell'album, che rinuncia alle parti liriche per focalizzare l'aspetto strumentale. Il muro tastieristico di De Canck, a base di sintetizzatori, organo e piano, domina già l'apertura di "Adyane", coadiuvato da virtuose spirali violinistiche che incrociano la scansione del piano Fender e della pulsante sezione ritmica, con il bassista Jean-Louis Tauvel in particolare evidenza. E' un brano che procede quasi a ritmo di marcia, di buon impatto, con piccole accelerazioni e fratture interne poi riassorbite nella solenne cornice delle tastiere. I due brani che completano la sequenza, molto più estesi e articolati, lavorano in questo solco con maggiore libertà e ampie digressioni. Il ricco parco-tastiere di De Canck evoca paesaggi sospesi e immaginifici al tempo stesso, ben assecondato da un basso spesso protagonista, finché il violino introduce una nota più lirica e vagamente folk, e insieme al pianoforte indirizza il brano verso un finale in crescendo. A tratti c'è qualche passaggio irrisolto, piccole sbavature in sede di arrangiamento che una produzione più accorta poteva evitare. La lunga composizione in coda che intitola il disco, sviluppata s'un ritmo più dinamico dal colore drammatico, compendia pregi e difetti degli Acintya: il vivace violino di Clesse, quasi melodico in questo caso, fa da perfetto contraltare allo scenario sinfonico messo in campo dal synth, in una sorta di equilibrio sempre interrotto e rilanciato. Ci sono languidi dialoghi di stampo cameristico tra violino e pianoforte, e quindi riprese più tirate, con la sezione ritmica che frantuma ad arte la trama delle tastiere: De Canck si destreggia anche all'organo a canne, e non mancano neppure inserti rumoristici e parentesi di taglio psichedelico. I musicisti hanno talento e l'insieme è suggestivo, anche se permane l'impressione di un'amalgama non sempre compiuto tra le parti. In ogni caso, "La cité des Dieux oubliés" è un album discreto che piacerà senz'altro ai patiti del prog sinfonico arricchito da sonorità space-rock. La riedizione in CD della Musea aggiunge due lunghe bonus-track catturate dal vivo nel 1976.

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"La cité des Dieux oubliés"

"Adyane"

  Acqua Fragile   - Degli Acqua Fragile, autori di due album nella prima metà dei Settanta, si ricorda soprattutto la grande voce solista di Bernardo Lanzetti. Si tratta forse del miglior cantante italiano in lingua inglese di quegli anni, cosa che lo renderà ideale per un gruppo di portata internazionale come la P.F.M., nelle cui fila esordirà poi in "Chocolate Kings". Gli Acqua Fragile, che si formano a Parma nel 1971 come evoluzione di un gruppo beat chiamato Gli Immortali, suonano per un paio d'anni in giro per l'Italia, e infine realizzano un primo disco omonimo (1973) con la produzione di Claudio Fabi per la Numero Uno. Si tratta di un album di ottimo livello tecnico, ma ancora poco definito nelle scelte stilistiche: si passa infatti da composizioni di prog barocco e romantico, come l'attacco di "Morning Comes" o "Education Story", a morbide ballate prevalentemente acustiche, quasi di taglio americano ("Science Fiction Suite" soprattutto) che seppure gradevoli e ben suonate lasciano un po' interdetti sulla vera identità musicale del quintetto parmense. Il passo successivo di "Mass-Media Stars" (1974) arriva dopo la partecipazione a importanti festival dell'epoca, come Parco Lambro, ed è decisamente più maturo e personale, proprio a partire dalla scelta del repertorio. I cinque componenti, tra i quali vanno ricordati il chitarrista Gino Campanini e il batterista Piero Canavera, autore di tutte le musiche, si muovono adesso con bella disinvoltura tra sonorità flash-rock (modello Yes) sin dall'iniziale "Cosmic Mind Affair", e corpose atmosfere ottimamente cucite per la voce pastosa di Lanzetti: un buon esempio in tal senso è "Coffee Song". In generale, gli spazi strumentali sono sempre brillanti, caratterizzati da arrangiamenti molto dinamici e curati: tra gli altri pezzi va citato "Opening Act", che si distingue per le liriche corali, e poi la stessa title-track, dove si fa notare il basso frizzante di Franz Dondi. L'insieme, alla fine, lascia un piacevole sapore di padronanza tecnica, e in particolare di riuscito amalgama tra le parti cantate e il tessuto strumentale. In effetti, un gruppo con queste credenziali poteva e doveva arrivare più lontano, magari anche sul mercato estero. Ci riuscirà, come detto, il solo Lanzetti, il quale, dopo la felice parentesi internazionale con la Premiata, ha pure iniziato una pregevole carriera solista ed è sempre molto attivo: tra l'altro, ha collaborato con il gruppo reggiano Mangala Vallis. Nel 1994 è stato pubblicato il postumo "Live in Emilia", risalente a un tour del '75 con Joe Vescovi dei Trip al posto di Maurizio Mori alle tastiere, ma dopo molti anni la band si è finalmente riformata come trio (Lanzetti, Dondi, Canavera) per realizzare un album nuovo di zecca come "A New Chant" nel 2017. Altre informazioni sono disponibili nel blog del cantante.

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"Mass-Media Stars"

"Coffee Song"

  Affinity   - Meteora della prima stagione del progressive britannico, il nome degli Affinity si lega all'unico disco omonimo() pubblicato nel 1970 su etichetta Vertigo. In realtà, al centro del progetto c'è una brillante voce femminile come Linda Hoyle, cantante di ascendenze blues e soul, affiancata da una band (tastiere, basso, chitarra e batteria) di buon livello, e sempre capace di assecondare l'eclettica vocalist nella ricca scaletta che include sette tracce. La coloritura strumentale pende soprattutto verso un sofisticato jazz dalle scansioni eleganti, ravvivato da picchi di solido rock-blues e sfumature psichedeliche: ad esempio in "Three Sisters", con il chitarrista Mike Jupp in bella evidenza insieme ai fiati. Altri episodi, come l'intrigante e sensuale "Mr. Joy" e il più breve "Coconut Grove", lasciano affiorare il versatile talento della Hoyle, che riesce particolarmente convincente nella lunga "Night Flight": è un brano che lega efficacemente il timbro scuro e potente della voce solista alla corposa parte strumentale, con l'apporto decisivo in questo caso dell'organo di Lynton Naiff, e delle percussioni, a definire un suono particolarmente saturo e avvolgente. L'album si chiude con gli oltre undici minuti di "All Along the Watchtower", cover di Bob Dylan: in mano agli Affinity diventa una lunga cavalcata strumentale, dominata ancora dall'organo in uno stile vivace e tipicamente sixties, con la Hoyle molto grintosa e potente nei suoi interventi, non diversamente dalle grandi vocalist d'oltreoceano. Ottimamente accolto dalla critica alla sua uscita, il gruppo non avrà però un seguito. mentre Linda Hoyle inciderà da solista l'album "Pieces of Me"(1971), ancora su Vertigo. Degli altri membri, il batterista Grant Serpell suona a lungo con la pop band Sailor, mentre il bassista Mo Foster incide qualche disco da solista negli Ottanta, sempre in ambito jazz-fusion. La ristampa in CD degli Affinity a cura della Repertoire (1993) contiene anche i due brani del singolo "Eli's Coming" / "United States of Mind".

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"Affinity"

  Agitation Free   - Una delle migliori band del Krautrock, nonostante la breve storia, gli Agitation Free si formano a Berlino nel 1967 ma solo due anni dopo assumono il nome definitivo. Una volta entrato in formazione il tastierista Michael Hoenig, il quintetto è pronto a realizzare il suo primo album: "Malesch" () è pubblicato dalla Vertigo alla fine del 1972 e mostra subito le ottime credenziali del gruppo berlinese, dedito a un rock aperto all'improvvisazione e all'elettronica. Buona parte del disco risente delle forti impressioni maturate durante un lungo tour musicale (Grecia, Cipro, Libano, Egitto) organizzato dal Goethe-Institute. Così, se l'iniziale "You Play for us Today", aperta da spirali di vento, e sviluppata sull'uso intensivo di synth e percussioni, ricorda da vicino sonorità coeve dello space rock tedesco, e "Pulse" è un esperimento elettronico di Hoenig che sfrutta generatori di tono, altri episodi mostrano un'elaborazione più esotica. In particolare "Malesch", con le voci della strada catturate in diretta, è un crescendo di tastiere, chitarre e percussioni dall'incedere ipnotico, che celebra l'atmosfera egiziana. Lo stesso vale per "Sahara City", rarefatta e piena di echi come pure "Khan el Khalili", omaggio al celebre bazar: oltre al synth, in queste tracce è peculiare l'uso delle percussioni (Burghard Rausch e altri ospiti) e delle due chitarre (Lutz Ulbrich e Jorg Schwenke), capaci di creare un eccellente mosaico sonoro. Più serrato, ma ugualmente intrigante, è "Ala Tul", dominato dall'organo e dal basso di Michael Gunther, col robusto apporto percussivo nel finale. Il disco successivo, inciso col nuovo chitarrista Stefan Diez (che rileva Schwenke) e intitolato semplicemente "Second" (), è pubblicato nel 1973 e mostra la piena maturazione di uno stile elegante e sempre più raffinato. Basta ascoltare ad esempio la splendida "First Communication", cesellata di concerto dalle chitarre e dall'organo di Hoenig in una morbida progressione ad effetto che privilegia soprattutto le sfumature timbriche, senza forzare mai i toni. Non da meno sono le due parti di "Layla", sostenute abilmente dalla batteria nel consueto gioco incrociato di chitarra, synth e organo, mentre altrove la musica si fa più evocativa: è il caso della ieratica chiusura di "Haunted Island", con la voce filtrata in un crescendo dominato dal mellotron e dalla limpida chitarra solista. Interessante anche "Quiet Walk", caratterizzata da un lungo inserto di bouzouki di Hulbrich, a recuperare sonorità più calde che sembrano davvero la stella polare di molto Krautrock dell'epoca. La band è poi vittima dei soliti dissidi interni, e si separa nel 1975. Nel corso degli anni sono usciti diversi dischi postumi: tra gli altri il live "Last" (1976). Ristampe a cura di Spalax e Garden Of Delights. Altre informazioni nel sito ufficiale.

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"Second"

"First Communication"

  Agorà   - Formazione marchigiana della provincia di Ancona messa insieme nel 1974, che firma due buoni album di jazz-rock a metà degli anni Settanta per la prestigiosa etichetta Atlantic. Schierati a cinque (basso, chitarre, fiati, tastiere, batteria) gli Agorà esordiscono in modo piuttosto inconsueto, dopo cioè aver ricevuto l'invito a suonare al famoso Festival Jazz di Montreux, in Svizzera. Si esibiscono il 7 Luglio e il concerto registrato in quest'occasione diventa appunto l'album "Live in Montreux" (1975). Composto di cinque tracce, è un disco che fin dall'iniziale "Penetrazione" si caratterizza per uno stile compassato, basato su lente progressioni del tema, che mostra comunque le indubbie qualità del gruppo. Interessanti soprattutto le due parti di "Serra S. Quirico", dedicate al piccolo borgo dove si sono formati: parti vocali senza parole accompagnano una prima parte molto evocativa, articolata sul piano elettrico di Roberto Bacchiocchi, con buoni inserti di chitarra elettrica e sax soprano, mentre nella seconda parte ci sono passaggi ritmici più serrati. Nel successivo "Agorà 2" (1976) appare evidente la maggiore personalità del rinnovato sestetto, che sostituisce il bassista e include un secondo fiatista. La sequenza passa da episodi eccellenti come "Punto rosso", che apre il disco, alla più drammatica "Tall El Zaatar" (che ricorda un massacro della guerra civile libanese), con le sue rotture ritmiche e i picchi del sax, fino alla lunga "Cavalcata solare", ben costruita sul basso pulsante di Lucio Cesari. Tutti brani di notevole fattura che colpiscono per uno stile più maturo, capace di creare atmosfere variegate: a volte rarefatte e introspettive sotto la guida del piano elettrico di Bacchiocchi ("Simbiosi" ad esempio), ma anche più grintose, senza mai cristallizzarsi nel jazz ipnotico del disco d'esordio. Misurata quanto incisiva è pure la presenza della chitarra elettrica di Renato Gasparini, ad esempio nella citata "Punto rosso", e sempre di grande rilievo il duttile lavoro al sax soprano di Ovidio Urbani, ma è soprattutto l'insieme a denotare maggiore padronanza e versatilità. Nonostante le discrete credenziali messe in mostra, tuttavia, per questo valido gruppo non ci sarà un seguito: in un mercato discografico già travolto da punk e disco music, degli Agorà si perdono le tracce nel 1978. Un fugace ritorno all'attività nel 2002 non ha riscontri discografici fino al 2014, quando finalmente viene pubblicato l'album "Ichinen", che include nuovi pezzi oltre a un paio di episodi tratti dai due dischi precedenti, e quindi il live "Bombook" (2016). Prima e dopo questa uscita, i membri della band hanno seguito percorsi individuali, come il fiastista Urbani, rimasto attivo nel circuito jazz. Ristampe BTF.

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"Agorà 2"

  Akritas   - Una delle pochissime formazioni del prog greco conosciute al di fuori dei propri confini. La band si forma sul finire del 1972 come trio: lo compongono il chitarrista/bassista, oltre che cantante, Stavros Logaridis (già membro dei Poll), insieme al tastierista Aris Tasoulis (a suo tempo con i Bourboulia), e al batterista Giorgos Tsoupakis. Il gruppo si avvale anche, in studio, del chitarrista Dimos Papachristou, coinvolto nella pubblicazione dell'album "Aκριτας"() da parte della Polydor (1973). E' una sequenza di tredici pezzi generalmente piuttosto brevi, che risente indubbiamente del progressive inglese più rinomato, come nell'iniziale "Invader", che ricorda da vicino la lezione di E.L.P., ma è interessante notare l'inserimento di suggestioni mediterranee, a cominciare dalle liriche in lingua greca: ad esempio "Genesis" o anche un brano umbratile come "The Dream", tutto in chiave acustica con il canto sommesso di Logaridis, ma soprattutto "Look Both Horse & Green", con la convivenza di fratture ritmiche e spunti chitarristici. In generale, il suono degli Akritas coniuga felicemente l'eclettica vena del tastierista Tasoulis, in evidente stato di grazia, con una serie di variazioni che dimostrano la discreta preparazione della band. Bella soprattutto "Love", con la delicata apertura classicheggiante delle tastiere che si evolve genialmente sul pianoforte di Tasoulis in un crescendo innervato anche dal gioco percussivo di Tsoupakis e dal synth. Altro episodio accattivante è poi "The Festival", guidato ancora dal piano, col ritmo serrato che lascia spazio alle coloriture del synth e alla chitarra solista di Papachristou, musicista che aggiunge spessore al disco in diverse occasioni, non di rado echeggiando elementi della musica tradizionale ellenica. Non manca qualche momento più frammentario negli arrangiamenti, come "The Return", aperta dall'organo e poi virata bruscamente verso una dimensione jazz, eppure l'unico disco pubblicato dal trio greco rimane un piccolo classico del prog mediterraneo meno battuto, meritevole di una riscoperta. Diverse le ristampe attualmente in circolazione.

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"Aκριτας"

  Aktuala   - Originali esponenti della scena alternativa italiana, in particolare di quella che oggi diremmo musica etnica-world, gli Aktuala nascono a Milano nel 1972 dall'incontro di Walter Maioli (flauti e percussioni) e Daniele Cavallanti (sassofono), entrambi interessati alle culture afro-asiatiche, oltre che a certe tradizioni del Mediterraneo. Il primo album omonimo (1973), pubblicato dall'etichetta Bla Bla, è in effetti un affascinante concentrato di musiche diverse, senza parti vocali, con l'utilizzo di strumenti come viola, balalaika, tamburi africani (Lino 'Capra' Vaccina) e flauti di ogni tipo. Il disco include sei tracce, con un certo spazio lasciato all'improvvisazione. Sonorità acustiche e ammalianti trionfano nell'apertura di "When the Light Began": quasi dodici minuti sospesi che condensano il progetto, con la viola di Maurizio Dones in evidenza insieme al sax soprano, al flauto di Maioli, alle percussioni africane e alla chitarra acustica. Nella stessa scia si pone l'epilogo di "Dejanira", con il sax e la chitarra acustica protagonisti, ma il disco allinea anche momenti più sperimentali come "Mammoth R.C.", scandito da cupi rimbombi fino all'esplosione del caos, mentre "Sarah' Ngweha" e soprattutto "Alef's Dance" echeggiano danze trascinanti, con le percussioni e i fiati in primo piano. Insomma, la proposta del gruppo prende subito le distanze da ogni modello di rock anglosassone, cercando invece nuove vie espressive. Il nome degli Aktuala si lega tra l'altro a una sorta di comune indipendente e aperta, molto tipica degli anni Settanta. Il successivo passo discografico è "La terra"(1974), realizzato stavolta senza Vaccina e con nuovi strumentisti: tra questi il fiatista Otto Corrado (già con i N.A.D.M.A.) e il chitarrista Attilio Zanchi. Sono quattro lunghi episodi strumentali dello stesso tenore, ma forse più ponderati, con un'impronta ritmica che tende a farsi ancora più marcata e quasi ipnotica, anche per la presenza di un valido percussionista come Trilok Gurtu: è il caso di "Mud", ad esempio, con l'adozione di stimolanti elementi free-jazz e il sax di Cavallanti in primo piano, fino a un pregevole inserto di violoncello. Più originale ancora l'attacco evocativo di "Sar", protagonista l'arpa dell'olandese Marjon Klok, mentre la chiusura in crescendo della lunga title-track rimanda al disco d'esordio per il clima inizialmente rarefatto, tra suoni d'arpa, sax e chitarra. L'ultimo album, realizzato dagli Aktuala dopo un periodo trascorso in Marocco, è "Tappeto volante"(1976) che prosegue nella costante ricerca di sonorità aperte a ogni cultura. Fuori dalle formule più rinomate del circuito rock, questa formazione milanese va ricordata comunque per la sua proposta diversa e meritoriamente in anticipo sui tempi, anche se all'epoca non mancarono polemiche per una scelta considerata eccentrica e anti-modernista rispetto alla realtà di quegli anni. In seguito, se Cavallanti s'inserisce stabilmente nel circuito jazz, Maioli ha proseguito in proprio realizzando l'album "Futuro antico" nel 1980, mentre Lino Vaccina ha fatto parte del progetto Telaio Magnetico prima di firmare un disco come "Antico adagio" (1978) e collaborare quindi con artisti come Juri Camisasca e Claudio Rocchi. Ristampe in CD a cura di GDR e Artis (CD) e Bla Bla (vinile).

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"Aktuala"

  Albergo Intergalattico Spaziale   - E' un progetto coraggioso che vede protagonisti l'ex Giganti Mino Di Martino e Terra Di Benedetto, gestori nei primi Settanta a Roma di un locale con lo stesso nome che propone spettacoli di musica e teatro all'insegna della ricerca più libera. Dopo alcuni concerti, i due incidono nel 1976 l'album omonimo, che uscirà però solo nel 1978, in forma autoprodotta dopo il ripensamento della EMI, che in un primo momento aveva mostrato un certo interesse per la proposta del duo. Il disco, che include otto episodi, è una miscela fascinosa e molto sperimentale di tastiere elettroniche (Di Martino) e della voce femminile della Di Benedetto, che canta e recita liriche enigmatiche ("Phasing" ad esempio), e più spesso utilizza la voce come strumento aggiunto, in particolare nella lunga "Variazioni su 'Angeli di solitudine'". Il resto è un viaggio sonoro basato sulle tastiere, non privo di una certa suggestione cosmico-spaziale : in particolare "Tastiera solo", ma anche "4 tracce", dove le tastiere elettroniche lasciano il segno in maniera più compiuta. "Improvvisazione" riprende invece, molto liberamente, il celebre "Inno alla gioia" di Beethoven, con la bella voce di Terra Di Benedetto protagonista accanto alle maestose tastiere del compagno. In sostanza, come per il primo Battiato, si tratta di una musica più vicina all'avanguardia che al rock vero e proprio, con riferimenti abbastanza ovvi alle sonorità dei cosmici tedeschi, ma con maggiore apertura verso forme espressive più spontanee, non sempre sviluppate, grazie alla voce femminile. La copertina dell'album, come le documentate note interne e un'intervista al Comitato Politico dell'Enel (riportato nella ristampa in CD dell'etichetta Musicando), si schierano apertamente contro il nucleare e a favore dell'energia pulita, un tema di grande attualità dopo il disastro ambientale di Seveso nel luglio 1976. Da notare che in precedenza i due partecipano alla famosa tournée del supergruppo Telaio Magnetico nel sud Italia, guidato da Franco Battiato, che nel 1995 sarà documentata nel disco "Live '75". Accantonato il progetto dell'Albergo, Terra Di Benedetto realizza un singolo nel 1982 ("Angeli e dinosauri"/"Silenzio il tempo gira") e si dedica al teatro, mentre Di Martino realizza l'album "Alla periferia dell'impero" (1984) e diventa quindi autore per interpreti quali Alice e Giuni Russo. Nel 2011, sempre a nome del duo, è stato quindi pubblicato l'album "Cammino sotto il mare - Idee per canzoni". Il primo album è stato riedito anche in vinile da Psych-Out e Wha Wha.

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"Albergo Intergalattico Spaziale"

  Albero Motore   - Prodotti da Ricky Gianco, autore delle liriche insieme a Gianni Nebbiosi, i cinque Albero Motore (basso, batteria, tastiere, chitarra e voce solista) si fanno notare all'inizio del 1974 con "Il grande gioco", uscito per la Car Juke Box. E' ancora oggi un album fresco e godibile, senza i virtuosismi e le oscurità del rock progressivo più in voga, ma buon equilibrio strumentale e una vena melodica piuttosto brillante. Anche se l'ispirazione musicale del gruppo romano è quanto mai composita, gli otto brani in scaletta sono costruiti come si deve e si fanno ascoltare ancora oggi con piacere. Tra gli altri spicca la civile protesta di "Israele", che nel testo denuncia l'ambiguità di chi da oppresso si fa "oppressore", e si articola su pause e riprese di grande effetto, ma musicalmente belle cose offrono anche tracce come "Una vita di notte", costruita sul pianoforte accattivante di Adriano Martire e con la batteria di Marcello Vento in grande spolvero, fino alla più divertita "Landrù" (uscita anche come singolo), con la chitarra di Fernando Fera protagonista col piano nel torrido finale. Altri momenti del disco mostrano un lato più pensoso, ad esempio "Nel giardino dei lillà", o anche "Le esperienze passate", mentre lo strumentale "Capodanno '73" è un breve divertissement dal ritmo indiavolato. E' una sequenza che abbraccia il rock più classico e di taglio americano (il brioso incipit di "Cristoforo Colombo"), il pop melodico e la ballata blues, oltre a qualche spunto di morbido jazz negli arrangiamenti, con un pianoforte molto eclettico in costante evidenza insieme alle chitarre di Fera, autore delle musiche come il bassista Glauco Borrelli. La voce solista di Maurizio Rota, per finire, è sempre bella e all'altezza di una proposta così varia. In conclusione, si tratta di un discreto album, sia pure fuori dalle complesse architetture del prog dei Settanta. La band romana si sciolse però dopo la pubblicazione di un ultimo 45 giri come "Messico lontano"/"Mandrake" (1975), e in seguito quasi tutti i componenti sono restati nell'ambito della musica, sia pure con ambizioni diverse. In particolare, Fera ha realizzato colonne sonore e anche un raro album intitolato "Fernando Fera Group", mentre il bassista Glauco Borrelli ha suonato per anni con Pierangelo Bertoli e il valido Marcello Vento, scomparso nel 2013, ha suonato tra l'altro con Canzoniere del Lazio, Carnascialia e Saint Just Again. Ristampe in CD e vinile a cura di Akarma e AMS.

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"Il grande gioco"

  Alice   - Tra le prime band francesi ad abbracciare il rock progressivo, gli Alice realizzano due dischi di buona fattura nei primi anni Settanta. Guidato dal polistrumentista Jean-Pierre Auffredo (fiati, violino, chitarra, pianoforte) il quintetto esordisce con un fresco album omonimo registrato allo Studio Marquee di Londra (1970). L'apertura accattivante di "Axis" è un rock psichedelico dai risvolti esotici e misteriosi, ma il disco mette insieme umori compositi. Delicati esempi di folk-rock con flauto, chitarra acustica e percussioni in evidenza ("Valse" o "Le Nouveau Monde"), melodie dai toni intimisti e rarefatti ("Venez Jouer II" e poi "L'Enfant") oltre a qualche vivace rock chitarristico ("L'Arbre" e "Tournez La Page..."). La minisuite "Extrach Du 'Cercle' " è forse il momento più ambizioso della sequenza, anche se oggi suona un po' datato: diviso in due parti, allinea voci corali, incisivi spunti di chitarra oltre alle tonalità gotiche dell'organo di Alain Suzan e una coda di violino. Nel complesso è un disco di gradevole ascolto, ma con spunti eterogenei non sempre calibrati a dovere. Nel 1971 la band pubblica il 45 giri "Je voudrais habiter le soleil" e subito dopo volta pagina: Alain Suzan assume il comando delle operazioni, reclutando quattro nuovi elementi al posto di Auffredo che lascia insieme agli altri. Il risultato è un secondo album più maturo come "Arrêtez le monde" (), uscito nel 1972 per la Polydor. Davvero molto bello l'attacco di "Introduction" e della seguente "Salina", immerse in un clima sinfonico e romantico di eccellente fattura, con echi quasi rinascimentali a tratti, nel quale spiccano il flauto, il mellotron di Luc Bertin e una chitarra solista ad effetto. Di sapore classicheggiante è pure "Il Est", un episodio di trasognata eleganza guidato dal flauto di Suzan. Nella sequenza si segnalano quindi la fosca "Byzance", scandita dal ritmo marziale della batteria, il rock chitarristico e melodico di "Le Roseau", con i fraseggi dell'organo nel finale, fino alla bella melodia della title-track, con chitarra e pianoforte che incorniciano abilmente le parti vocali, oltre a un paio di ballate prettamente acustiche come "Franky l'oiseau". Nelle due parti della conclusiva "Le cercle" gli Alice recuperano invece una dimensione prog più elaborata: il flauto leggiadro e le voci corali dominano il primo segmento, mentre nel secondo, più potente, l'organo e la chitarra elettrica sviluppano un tema strumentale di bella tensione, con il fattivo apporto del batterista Dodou Weiss e del sax. Un degno suggello per un disco di buon livello, che fu realizzato anche in versione inglese con il titolo "All Ice". Ristampe a cura di Progressive Line e Second Harvest.

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"Arrêtez le monde"

  Alluminogeni   - Questo trio di Torino, formato nel 1970, prende il nome dal suo leader Patrizio Alluminio (tastiere e voce). Dopo l'esordio col singolo "L'alba di Bremit" e altri tre 45 giri in una chiave più leggera, tutti realizzati nel periodo 1970-'71, il gruppo è protagonista anche di una vivace stagione live, con diverse partecipazioni ai primi raduni pop italiani, ad esempio quello celeberrimo di Viareggio nel 1971. Finalmente, nel 1972, viene realizzato il primo album per la Fonit-Cetra, "Scolopendra". I testi, a carattere concept secondo la diffusa tendenza dell'epoca, narrano per sommi capi la vigilia e l'alba dell'uomo sulla terra. La registrazione piuttosto opaca, della quale molto si lamentò Alluminio con la label, non impedisce comunque di apprezzare le contraddizioni della sequenza: da un lato certe ingenuità di base nella scrittura, dall'altro anche gli spunti piuttosto felici di questo rock d'impronta dark, con l'organo del leader e la chitarra elettrica di Enrico Cagliero in primo piano, insieme alle discrete parti vocali. In generale, appare evidente e lodevole il tentativo di emanciparsi da sonorità post-beat che pure fanno capolino qua e là, anche se l'operazione riesce solo a metà. Tra le sette composizioni dell'album spiccano la title-track che apre il viaggio, la lunga e rarefatta "Thrilling" e anche l'epilogo di "Pianeta", una composizione drammatica e piena di pathos. In sostanza, "Scolopendra" rimane un genuino esempio di prog italiano degli inizi, interessante ma ancora in cerca di un suo linguaggio pienamente convincente. Una volta sciolta la band, Patrizio Alluminio ha provato la carta solista, realizzando nel 1975 un singolo, sempre per la Fonit, intitolato "Tu anima mia" (retro "L'isola"): pur virando al pop melodico, la voce del cantante è al centro di una interessante miscela di tastiere e synth, per niente disprezzabile. Riformatisi nel 1993 gli Alluminogeni hanno quindi realizzato l'album "Geni mutanti" e la raccolta "Green grapes", che include pezzi vecchi e nuovi. Ristampe a cura di BTF/Vinyl Magic.

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"Scolopendra"

  Alphataurus   - Un ottimo gruppo milanese formato nel 1970. Dopo una serie di partecipazioni a importanti raduni live dell'epoca, come il Davoli Pop di Reggio Emilia e Palermo Pop, entrambi nel 1972, il quintetto (voce, chitarra, tastiere, basso e batteria) realizza nel 1973 il suo primo disco omonimo() per la nuova etichetta Magma, gestita da Vittorio De Scalzi dei New Trolls. L'album si compone di cinque tracce di media e lunga durata, tutte di buon livello e con picchi di vera eccellenza, praticamente senza punti deboli. Se la copertina firmata da Adriano Marangoni allude all'ambiguità di un pacifismo solo di facciata, e i testi ai rischi dettati da superbia e isolamento, come si ascolta nelle liriche di "Peccato d'orgoglio", che apre la sequenza, la musica è un potente rock barocco con vivaci impennate hard: è il caso soprattutto di "Dopo l'uragano", un brano valorizzato dall'ottima voce di Michele Bavaro e dalla chitarra solista di Guido Wasserman. Nonostante si avverta talvolta l'influenza di sonorità targate E.L.P., particolarmente nella chiusura tumultuosa di "Ombra muta", le tastiere di Pietro Pellegrini, autore di tutte le musiche, trovano anche diversi momenti più personali e di grande effetto, come nel suggestivo strumentale "Croma". Belle parti di pianoforte e synth infine caratterizzano "La mente vola", un episodio dove anche nelle liriche emerge l'anima più romantica del gruppo. La formazione lombarda mostra un notevole potenziale tecnico, e si giova qua e là di ingegnose sonorità speciali davvero efficaci, che rendono ancora più accattivante e d'impatto l'insieme. Nonostante un esordio così promettente, i cinque si sciolgono però poco dopo, lasciando un secondo album parzialmente incompiuto, senza parti vocali, che ha visto la luce soltanto negli anni Novanta: "Dietro l'uragano" (1992). Dopo anni di silenzio e percorsi individuali (Pellegrini ha collaborato con P.F.M. e Riccardo Zappa, Bavaro ha tentato la carriera solista), la band è tornata finalmente attiva nel 2010, e dal concerto di riunione a Mezzago è stato tratto il disco "Live in Bloom" (2012), seguito lo stesso anno da "AttosecondO". In generale, gli Alphataurus restano senz'altro tra i più meritevoli nel folto panorama delle band italiane meno fortunate. Ristampe digitali a cura di Vinyl Magic e poi AMS/BTF. Altre informazioni nel sito ufficiale.

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"Alphataurus"

  Alquin   - Nati nel 1968 a Delft, gli olandesi Alquin vantano alcuni album di valore disuguale. L'esordio di "Marks", pubblicato nel 1972, mostra un sestetto molto eclettico (due fiatisti in organico) che si destreggia tra morbide atmosfere acustiche come "You always can change", con pianoforte e chitarre in primo piano, e curiose divagazioni jazz all'interno del singolo pezzo: ad esempio "Oriental journey", dominato dai fiati. L'accostamento di climi diversi torna anche in "Soft royce", con stranianti inserti di ritmi afro-latini e voce acida in un contesto molto prossimo ai canterburyani, e nella più atmosferica "I wish I could", col flauto e l'organo protagonisti, mentre nella più breve "Catharine's wig" fa capolino una vena folk con tanto di violino. La disinvolta, a tratti spericolata, contaminazione di stili tanto diversi non fuga però l'impressione di una personalità ancora embrionale, fin troppo dispersiva. Più efficace e organico è il successivo "The Mountain Queen" (1973), considerato il loro disco migliore. Molto suggestiva è l'apertura di "The dance", ben articolata sull'organo di Dick Franssen e la chitarra solista di Ferdinand Bakker, e poi dirottata altrove dai fiati prima di tornare al punto di partenza. Di un certo effetto è pure "Convicts of the air", sincopato episodio con la chitarra e il flauto di Ronald Ottenhoff a incrociarsi continuamente. Più ancora che nella title-track, sostanziosa variazione su Canterbury e dintorni con morbide parti vocali, la summa stilistica di questo gruppo camaleontico è nella chiusura di "Mr. Barnum's Jr.'s Magnificent and Fabulous city" (presente in versione live nel disco d'esordio) che chiama ancora in causa il violino, il sax e il flauto in un esempio davvero pirotecnico di progressive senza confini, tra folk, jazz e blues, con lunghe divagazioni dell'organo e coloriture acide della chitarra. Con il disco del 1975, "Nobody Can Wait Forever", entra in formazione un cantante di ruolo, ma la musica degli Alquin opta per soluzioni pop-rock più commerciali, confermate nelle successive incisioni. Molto popolare in patria, la band si è riformata negli anni Novanta e ha realizzato nuovi album.

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"The Mountain Queen"

  Alusa Fallax   - L'album "Intorno alla mia cattiva educazione" è l'ultimo e più noto documento discografico di questa band milanese, seppure gravitante nella zona di Novara, nata nel 1969 sulle ceneri degli Adelfi. Il nome scelto dal gruppo è una storpiatura di Alosa Fallax, cioè un pesce comunemente noto come Cheppia. Dopo due singoli come "Dedicato a chi amo/Charleston 1923" e quindi "Tutto passa/Cade una stella" (1969), di stampo più leggero, il gruppo concepisce un ambizioso progetto destinato a diventare il primo e unico album, edito dalla Fonit Cetra nel 1974. I cinque componenti (chitarra, tastiere, flauto/sax, basso, percussioni/voce) abbracciano senza incertezze il linguaggio del progressive, a cominciare dal carattere concettuale che lega tutti i tredici brani del disco, pensato appunto come una vera opera di stampo teatrale. Questa genesi è ravvisabile anche in alcuni episodi con il testo recitato: è il caso soprattutto della breve traccia "Perché ho venduto il mio sangue". Musicalmente il ruolo guida è costituito dal binomio di pianoforte e flauto (Mario Cirla), con alcune parti di synth e in generale una trama sonora senza eccessivi protagonismi, nella quale trovano spazio liriche di notevole spessore, che spesso fanno pensare al cantautorato più raffinato dell'epoca. Seguendo appunto la linea del racconto testuale, gli spazi strumentali si dividono tra episodi carichi di tensione drammatica con flauto, sax e percussioni in evidenza (ad esempio "Soliloquio" o "È oggi"), ed altri più eleganti, come la title-track strumentale con un flauto leggiadro protagonista, costruiti spesso sulle tastiere di Massimo Parretti: è il caso della finale "Splendida sensazione". In generale, il disegno sonoro è sempre coerente, anche se probabilmente alla sequenza mancano i momenti davvero memorabili che fanno la differenza: grazie però alla bella voce solista di Augusto "Dutj" Cirla, dal timbro roco e davvero molto efficace in pezzi quali "Non fatemi caso" e "Ciò che nasce con me", e anche al discreto livello tecnico del quintetto, il disco si ascolta con interesse fino in fondo. In conclusione gli Alusa Fallax, che si sciolgono nel 1979 dopo aver inciso un singolo sotto il nome di Blizzard (1977), con il solo album realizzato portano il loro fattivo contributo al rock progressivo italiano degli anni Settanta. Ristampe a cura di Mellow Records e BTF/Vinyl Magic, anche in vinile.

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"Intorno alla mia cattiva educazione"

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