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Steve Hackett Haikara The Norman Haines Band Haizea Hannibal

Happy The Man Harmonia Harmonium Hatfield and the North Head Machine Hero High Tide Home Hunka Munka

 

 

  Steve Hackett   - Nel 1977 il chitarrista Steve Hackett lascia i Genesis per una serie di divergenze, ma già nel 1975 aveva pubblicato il suo esordio da solista, "Voyage of the Acolyte" (), che rimane tra le sue prove più brillanti. Realizzato con l'apporto di Phil Collins e Mike Rutheford, l'album raccoglie otto brani di eccellente fattura riferiti fin dal titolo al tema del viaggio iniziatico, con espliciti richiami ai Tarocchi: ad esempio l'iniziale "Ace of Wands", con intriganti cambi di tempo, o la più pacata "The Hermit". L'ispirazione è molto prossima al gruppo-madre nella sognante "Star of Sirius" (cantata da Collins) e poi nel lungo epilogo di "Shadow of the Hierophant", con la cristallina voce di Sally Oldfield in evidenza, e Hackett si destreggia al meglio tra chitarra elettrica ed acustica, in un impasto sinfonico-romantico nel quale spiccano i raffinati apporti di mellotron, synth e fiati. Nel successivo "Please Don't Touch" (1978), lo stile risente del variegato cast di ospiti chiamati a collaborare: si segnalano soprattutto le voci di Steve Walsh dei Kansas ("Narnia"), Richie Havens ("How Can I?") e Randy Crawford ("Hoping Love Will Last"). Eccettuata la lunga chiusura di "Icarus Ascending", il risultato è più vario e melodico, con un pizzico di delicato folk acustico, come nel breve strumentale "Kim". In confronto, "Spectral Mornings" (1979) recupera la compattezza dell'esordio e il chitarrismo pirotecnico fin dal dinamico attacco di "Every Day", strumentale che lascia il segno, e poi con la sontuosa title-track. Spiccano la ballata "The Virgin and the Gypsy", con la voce solista di Peter Hicks supportata dal coro e le armonie del flauto di John Hackett, fratello di Steve, e il sapore esotico di alcuni episodi: in particolare l'atmosfera orientale di "The Red Flower of Tachai Blooms Everywhere" e la fosca "Clocks-The Angel of Mons", uno dei cavalli di battaglia dal vivo, con un gran lavoro del batterista John Shearer. Più introspettiva "Lost Time in Cordoba", episodio quasi cameristico cullato dolcemente dal flauto e dalla chitarra acustica. Con l'identica formazione il chitarrista pubblica quindi "Defector" (1980): si alternano lunghi pezzi strumentali ("The Steppes") e vivaci rock-song melodiche ("Time to Get Out" o "The Show"), con cori e tastiere accattivanti. A parte la tiratissima "Slogans", con synth e percussioni in evidenza, o piccole gemme come la malinconica "Leaving", ben cantata da Hicks, e "Jacuzzi", la sequenza sembra già anticipare la svolta. In effetti, Hackett inaugura a questo punto un percorso più eclettico con esiti alterni. Si susseguono raffinati dischi per chitarra classica (ad esempio "Bay of Kings", 1983), escursioni nella world-music e nel pop, fino al recupero del repertorio-Genesis, come nei due "Genesis Revisited" (1996 e 2012). Notizie nel sito ufficiale.

"Voyage of the Acolyte"

  Haikara   - Rinomata formazione finnica (il nome significa "cicogna"), che prende corpo a Lahti nel 1971 con l'incontro tra Vesa Lattunen (chitarra, voce e tastiere) e il batterista Markus Heikkerö. Dopo aver suonato in trio col bassista Timo Vuorinen, la band si stabilizza con il cantante Vesa Lehtinen e il fiatista Harri Pystynen: è questo quintetto che realizza il primo album omonimo () nel 1972. Cinque tracce che restano la migliore espressione di una musica capace di spaziare dal folk scandinavo rielaborato ("Köyhän pojan kerjäysal") al rock sinfonico più romantico, con coloriture jazz di grande interesse. In evidenza soprattutto i fiati e le chitarre, con un ruolo più defilato per le tastiere, ma grande importanza ha pure il violoncello dell'ospite Matti Tuhkane. Il meglio sta forse nella splendida "Luoja kutsuu", composizione d'ampio respiro con la voce di Lehtinen in primo piano, tra le accelerazioni improvvise e il malinconico tema di fondo, esaltato a dovere proprio dal violoncello e dal flauto di Pystynen. Gli stessi ingredienti tornano in "Yksi maa & yksi kansa", ma con un taglio ritmico più brioso e la chitarra solista all'interno d'un jazz-rock sempre dinamico, con un'intera sezione fiati protagonista. Nei due lunghi episodi rimanenti gli Haikara mostrano tutto il loro valore. Magnifica "Jälleen on meidän", sincopata su basso e sax con la chitarra elettrica in appoggio, e basso e batteria che non perdono un colpo: è un sound raffinato e imprevedibile, come nella conclusiva "Manala", prima introspettiva, tra arpeggi chitarristici e leggiadre spirali di flauto, e poi tumultuosa jam strumentale ad effetto. Un disco bello e personale, ma subito il cantante lascia i compagni per tornare nel suo primo gruppo, i Charlies. Nel successivo "Geafar" (1974) le parti vocali sono così divise tra Lattunen e sua sorella Auli: è un altro album pregevole, di poco inferiore al precedente. "Change" è un martellante manifesto politico cantato in inglese ("Power to the people!") e dominato da chitarra e basso. Ritmica serrata anche in "Kun menet tarpeeksi kauas tulevaisuuteen...", coi fiati in evidenza e i vocalizzi suggestivi di Auli Lattunen nell'ultima parte, mentre le due tracce più brevi, "Kantaatti" e "Laulu surullisesta pilvestä", recuperano un'elegante dimensione cameristica con piano e violoncello a cullare il delicato canto femminile. La lunga title track finale è invece più spumeggiante, con la voce della cantante protagonista tra i tipici cambi di tempo dell'esordio: ottimo il ruolo portante del basso, di una chitarra psichedelica e dei fiati in uno spartito eccellente, tra rock e jazz, che ribadisce il ragguardevole livello della band finnica. Lo scarso riscontro commerciale spinge poi la band verso soluzioni rock più facili nel terzo album "Iso lintu", realizzato nel 1975 col nuovo cantante Matti Heinänen. La vena più suggestiva degli inizi si diluisce qui in una rassegna di umori fin troppo eclettica: si va dal folk-rock vicino ai Jethro Tull ("Kuinka ollakaan"), alle melodie malinconiche ("Aamu") fino a canzoncine pop senza pretese ("Leppäkerttu"), con l'apporto dell'orchestra qua e là, come nella finale "Jäähyväiset". Dissolta la band, Vesa Lattunen resta attivo come compositore, finché nei Novanta resuscita la sigla in due dischi come "Haikara IV: Domino" (1998) e "Tuhkamaa" (2001), realizzati con nuovi elementi. Varie le ristampe in circolazione, in vinile e digitale.

"Haikara"

  The Norman Haines Band   - A lungo dimenticato e tuttora poco noto, il tastierista e cantante Norman Haines suona prima nei Locomotive, una band di Birmingham responsabile nel 1970 dell'album "We Are Everything You See", dopo il fortunato singolo "Rudy's in Love" (1968), quindi si mette in proprio quando il gruppo si scioglie. Col nome provvisorio di Sacrifice, il tastierista si esibisce in una decina di date live e registra in quartetto un album che l'etichetta Parlophone fa uscire nel Giugno del 1971 sotto il nome del tutto arbitrario di The Norman Haines Band: cosa che il tastierista scopre solo a cose fatte! A parte tutto, "Den of Iniquity"() è una brillante raccolta di sette tracce, incluse due suites che forse costituiscono il meglio dal punto di vista progressivo. Molto bella comunque l'apertura della title-track, un tema incalzante guidato dall'organo del leader con il fattivo apporto del chitarrista Neil Clark: grintoso il canto di Haines in uno schema vicino al dark rock allora in voga. Sulla stessa scia scorre anche "When I Come Down", con lunghe variazioni dell'organo sulle quali si fa valere la chitarra solista. La scaletta in verità è piuttosto variegata: "Every Thing You See", ad esempio, è una nuova versione di "Mr. Armageddon", un brano dei Locomotive, col canto sempre espressivo e il riff caratteristico del chitarrista s'una base più melodica, mentre "Bourgeois" è una breve e succosa ballata per chitarra acustica e voce firmata dal bassista Andy Hughes, e "Finding My Way Home" ha uno spiccato sapore country-rock, col refrain melodico quasi martellante. La suite più lunga è "Rabbits", divisa in quattro parti, che nasce e si sviluppa s'un cupo riff chitarristico, affiancato subito da basso e organo: particolarmente acida qui la chitarra di Clark, carica di effetti e distorsioni, e protagonista di lunghe derive tra psichedelia e heavy prog, col valido contributo anche della batteria di Jimmy Skidmore, e l'organo caldissimo di Haines sempre di sfondo. Dopo un breve interludio più raccolto e pacato, la composizione riprende quota e si chiude sul medesimo spunto di partenza. "Life is So Unkind" è completamente diversa: sviluppata sulla trama introspettiva delle tastiere, organo e piano, è una sorta di solitario esercizio di Haines dal taglio psichedelico, suggestivo quanto eccentrico rispetto al resto dell'album. Uno strano epilogo, senza dubbio interessante, che conferma in qualche modo la personalità di un artista troppo presto entrato nell'ombra, pur continuando a suonare e comporre. Il disco infatti vendette pochissimo in patria, ma andò meglio in Danimarca, e questo garantì ad Haines di registrare un altro singolo, stavolta a suo nome, intitolato "Give to Your Girl"/"Elaine" e pubblicato nel 1972: proprio "Elaine", crepuscolare e malinconica, con la bella voce del tastierista cullata da fiati, organo e una chitarra raffinata, è il vero testamento musicale dell'artista. Varie le ristampe in CD e vinile, spesso con i due brani del 45 giri aggiunti e altri inediti.

"Den of Iniquity"

"Rabbits"

  Haizea   - Originari di Hondarribia, piccolo centro dei Paesi Baschi situato proprio al confine con la Francia, gli Haizea (cioè "Vento") sono una delle molte formazioni basche dedite a un interessante folk di sapore progressivo. Fondati nel 1975 dal chitarrista e cantante Txomin Artola, a loro nome vengono pubblicati due soli album, il primo dei quali è un omonimo (1977), che afferma la dimensione più acustica del quintetto, imperniata sulle voci e gli strumenti a corda, oltre a flauto e percussioni. "Bródatzen Ari Nintzen" apre la sequenza con un bel duetto vocale articolato s'un delicato tappeto di chitarre. In "Loa Loa", tra i momenti migliori, il canto suadente di Amaia Zubiría è alle prese con una ninna nanna arricchita dallo xilofono, mentre il tema di "Urzo Aphal Bat" è sottolineato dalle percussioni e dal flauto. I brani della seconda parte aggiungono a questa ricetta qualche sonorità più oscura: ad esempio "Ura Ixuririk", con la chitarra elettrica che crea uno sfondo quasi psichedelico alle parti vocali, e soprattutto la lunga coda di "Arrosa Xuriaren Azpian" dove le due componenti trovano un ipnotico equilibrio, con la voce femminile al centro di lunghi arpeggi chitarristici, percussioni e interventi di xilofono. Il secondo album, realizzato nel 1979 dopo l'uscita di Artola, è "Hontz Gaua" (), cioè "nottambulo" in lingua basca, ed è sicuramente più maturo, oltre che più interessante in un'ottica psico-prog. Se l'iniziale "Anderea" è una limpida folk-song per voce femminile e chitarra, sulla scia del disco precedente, il seguito della sequenza regala sapori più variegati, a cominciare dallo strumentale "Egunarn hastapena", con il suo andamento sinuoso e irregolare che porta al proscenio il contrabbasso di Gabriel Barrena, insieme al violino e al flauto del nuovo Xabier Iriondo, in un trascinante impasto sonoro vicino al migliore folk-rock britannico. Più psichedelico lo sviluppo di "Argizagi ederra", dove la duttile voce di Amaia è al centro di un mood davvero intrigante, con spazi improvvisativi dominati dalla chitarra elettrica di Lasa in un clima di tensione strisciante. Tra gli altri pezzi, "Arnaki" è un episodio scorrevole aperto dal flauto, con le chitarre elettriche ed acustiche che duettano affiancate dalle percussioni di Carlos Busto. Il pezzo forte rimane la lunga title-track finale: dopo un sorprendente canto gregoriano in apertura, sul mobile tappeto di chitarra, percussioni e un flauto molto evocativo, la voce femminile intona un suggestivo canto senza parole: basso e chitarra elettrica riportano quindi il brano verso un'atmosfera sospesa e notturna di grande effetto. E' il degno epilogo di un buon disco e l'ultimo atto del gruppo basco. Amaia inizia poi una lunga carriera solista, talvolta in duo con Txomin Artola. Ristampe di Elkar e Lost Vinyl.

"Hontz Gaua"

  Hannibal   - Gruppo inglese nato sulle ceneri dei Bakerloo, quando il manager Jim Simpson cerca di rinnovare con altri musicisti il progetto appena interrotto dalla partenza di Dave Clempson. Alla fine, dopo qualche avvicendamento, si forma un sestetto guidato dal chitarrista Adrian Ingram, molto noto e stimato nell'ambiente del jazz britannico, e con il cantante nero Alex Boyce, che realizza il suo unico disco omonimo () per la B&C Records nel 1970. I sei brani offrono una miscela piuttosto originale di prog-rock dalle tinte blues e jazz, coi fiati di Cliff Williams e l'organo di Bill Hunt, più defilato, a fare da sponda alla chitarra solista di Ingram. Interessante soprattutto la lunga e chiaroscurale "Bend For a Friend", traccia strumentale costruita sulle cadenze del basso di Jack Griffiths e la batteria di John Parkes, ma con succosi inserti di sax e clarinetto, fino alla bella conclusione di "Winter", valorizzata da un brillante solo chitarristico. La voce solista di Boyce aggiunge alla musica della band un'impronta soul più vibrante, già nell'apertura di "Look Upon Me", articolata tra spunti di sax tenore e chitarra, come pure nella successiva "Winds of Change", che procede sui tempi dispari della sezione ritmica in un impasto molto efficace, tra pause e ripartenze che l'estro del chitarrista sa riempire a dovere. Nel secondo strumentale della sequenza, "Wet Legs", trova il suo spazio anche l'organo di Hunt. In generale, il suono degli Hannibal, di elevato tasso tecnico e sempre aperto all'improvvisazione, ha sicuramente le sue attrattive, anche se manca forse la soluzione ad effetto capace di colpire la fantasia del grande pubblico. Così neppure la stima degli addetti ai lavori può evitare lo scioglimento del gruppo nel 1971, dopo apprezzate esibizioni live accanto a gruppi rinomati quali Free e Black Sabbath. In ogni caso, le raffinate soluzioni strumentali che caratterizzano episodi come la blueseggiante "1066", col basso di Griffiths libero di riannodare i fili a metà brano, e soprattutto la buona vena di un valido solista come Ingram, rendono l'album di grande interesse per gli ascoltatori più esplorativi. Quello degli Hannibal, per concludere, è uno dei molti nomi dimenticati della scena progressiva britannica che sarebbe giusto sottrarre all'oblio. La prima ristampa in CD del disco si deve alla tedesca Green Tree Records (1994).

"Hannibal"

  Happy The Man   - Uno dei migliori gruppi americani in ambito progressive, gli Happy The Man nascono dall'incontro di Stanley Whitaker (chitarra) e Rick Kennell (basso) in Germania nel 1972. Tornati in Virginia formano la nuova band con altri elementi, finché nel 1976 il quintetto ottiene un contratto con la Arista Records. Il disco d'esordio omonimo (), pubblicato nel 1977, è un saggio eloquente delle grandi possibilità di Kennel e soci: un rock-prog estremamente sofisticato e ricco di sfumature sinfoniche, guidato dalle tastiere di Kit Watkins (che firma diversi pezzi), ma con l'abile contrappunto di Whitaker alla chitarra e una vivace sezione ritmica che conferisce alla musica una timbrica fusion molto moderna. In "Stumpy Meets the Firecracker in Stencil Forest" questa versatilità è assai evidente, anche per l'apporto al sax di Frank Wyatt. A parte due soli episodi cantati, l'album è interamente strumentale, e a tratti lascia davvero incantati: è il caso di "Carousel", splendido manifesto di musica ipnotica che nasce s'una frase di pianoforte e si amplifica gradualmente, potente e misteriosa. Di grande effetto anche "Mr. Mirror's Reflection on Dreams", con sognanti aperture di synth che richiamano Genesis o PFM, come la voce di Whitaker in "On Time as a Helix of Precious Laughs", uno dei momenti più suggestivi della sequenza. L'anno seguente, dopo una lunga stagione live di supporto a grossi nomi quali Renaissance e Jefferson Airplane, la band americana realizza "Crafty Hands" () col nuovo batterista Ron Riddle. E' un altro disco eccellente, rifinito a dovere nelle sue mille sfumature sonore, con un solo episodio cantato, "Wind Up Doll Day Wind", e sette episodi strumentali che dimostrano grande personalità. Dal breve "Service with a Smile" in apertura, a "Ibby It Is" e "Steaming Pipes", con un tema ritmico nervoso che incornicia spunti di synth e chitarra, fino al fascinoso crescendo della splendida "Open Book", con deliziosi inserti di flauto, il gruppo offre un altro mirabile esempio di rock elaborato e tecnicamente superbo. La gamma cromatica del parco-tastiere di Watkins e Wyatt è ancora l'arma in più del quintetto, mai disgiunta però dal grande lavoro di basso e batteria e dal prezioso cesello chitarristico di Whitaker. Purtroppo la band si sfalda poco dopo, lasciando un terzo album irrealizzato, e uscito poi nel 1983 col titolo "Better Late...". Una riunione parziale (con Whitaker, Wyatt e Kennel) ha portato quindi alla realizzazione di "The Muse Awakens" nel 2004. Info nel sito ufficiale.

"Crafty Hands"

  Harmonia   - Gli Harmonia sono una sorta di supergruppo tedesco che coinvolge Hans-Joachim Roedelius e Dieter Moebius, già noti come Cluster, più il chitarrista Michael Rother, del gruppo Neu!, che registrano due pregevoli album nel villaggio di Forst (Bassa Sassonia) e poi si sciolgono. Il primo disco del trio è pubblicato nel 1974 per la Brain: "Musik von Harmonia" è un bell'esempio di Krautrock, basato ovviamente su organi e sintetizzatori, insieme alle chitarre, ma con una linearità quasi pop che non diventa mai banale. Sono pulsazioni e suoni di sapore minimalista, che a parte l'uso di una drum-machine sono suonate interamente dal trio, senza le consuete sequenze programmate. Gli otto brani della sequenza somigliano ad altrettante variazioni sgorgate da una stessa fonte ispirativa: come se "Watussi", in apertura, si prolungasse nel seguito con piccole modifiche timbriche e sfumature di colore. Episodi come "Sonnenschein" hanno un retrogusto vagamente esotico, ad esempio, mentre "Dino" suona più fresca, come pure "Veterano", con la chitarra di Rother in primo piano sotto i suoni sintetici, ma identica è la pulsazione ritmica di base. La più lunga "Sehr Kosmisch" ("molto cosmico") ha il battito del cuore come filo rosso, in un lento crescendo tra echi e risonanze sparse, mentre più sperimentali sono "Ohrwurm", che fa a meno del ritmo, e "Ahoil" che vive di riverberi suggestivi. Un esordio di tutto rispetto, ma perfino migliore è il successivo "Deluxe" (), pubblicato nel 1975, che si avvale del produttore Conny Plank e vede la partecipazione di un batterista come Mani Neumeier (Guru Guru). In generale, il minimalismo precedente è sovrastato da un'ispirazione molto più corposa e fin dalla stessa copertina anche più solare. Magnifica ad esempio l'iniziale title-track, segnata dal respiro melodico e arioso delle tastiere che si libra nella scansione ritmica con l'aggiunta di un ipnotico refrain vocale, altra novità di rilievo. Rispetto all'esordio, insomma, la musica appare più calda e comunicativa, come si vede soprattutto in "Walky-Talky", dove spicca l'apporto decisivo di una vera batteria a fianco dei suoni elettronici, oltre al notevole contributo della chitarra elettrica ad effetto di Rother. L'altro episodio da segnalare è senz'altro "Monza", curioso riferimento italiano per una sorta di travolgente rock elettronico scandito a dovere da Neumeier tra scrosci di chitarra e voci che accompagnano il trascinante tema principale. Tra i brani più brevi della sequenza, intriga la pulsazione circolare di "Gollum", mentre "Notre Dame" lascia spazio ancora alla drum-machine, con un organo ossessivo in primo piano, tra pause di sapore cosmico e riprese del tema. Il residuo minimalista degli Harmonia fa capolino proprio nell'epilogo di "Kekse", dove il pianoforte però viene progressivamente affogato da suoni d'ambiente naturale. L'album è il vero testamento del gruppo tedesco, anche se una session con Brian Eno, risalente al 1976, frutta il disco postumo pubblicato nel 1997: si tratta di "Tracks & Traces". Molte le ristampe, sia in CD che in vinile.

"Deluxe"

"Monza"

  Harmonium   - Altra pregevole formazione canadese che arriva dal Quebec, gli Harmonium nascono nel 1972 a Montreal, e due anni dopo realizzano il disco d'esordio omonimo, che subito li impone all'attenzione del pubblico: il cantante e chitarrista Serge Fiori (figlio d'un musicista di origine italiana) è il perno di questo trio che suona un elegante folk-rock in lingua francese, in otto tracce di spiccato gusto melodico e tutte un poco simili. Dominato dalle chitarre acustiche e dalle voci, anche corali, il disco ha pochi agganci con il rock, ma scorre accattivante fin dall'attacco di "Harmonium", supportato dalla tromba. In "Vieiless currois", tra i momenti migliori, si ascolta anche il pianoforte di Louis Valois e il flauto dello stesso Fiori, mentre "Pour un instant" risente della lezione dei Beatles, e l'epilogo della lunga "Un musicien parmi tant d'autres" allinea tra pause e riprese il gioco eclettico delle voci insieme alle chitarre di Fiori e di Michel Normandeau. Nel successivo "Les cinq saisons" (), pubblicato nel 1975 e poi ristampato come "Si on avait besoin d'une cinquième saison", la formazione si allarga con l'arrivo di Pierre Daigneault (fiati) e del tastierista Serge Locat. Il suono si fa più ricco e sinfonico, a parte il breve episodio intitolato "Dixie", delizioso omaggio al jazz di New Orleans, con il clarinetto di Daigneault in grande spolvero. Struggente la lunga "Depuis l'Automne", con la voce di Fiori inserita in una partitura romantica, nella quale spicca il mellotron crimsoniano di Locat. Più intimista il tono di "En Pleine Face", ben costruita sulle chitarre, con un pianoforte rarefatto e la voce solista in evidenza oltre all'accordion. Da citare anche "Vert", in apertura, col flauto protagonista insieme alle belle armonie vocali e l'apporto di piano elettrico e basso, ma il picco è la lunga chiusura di "Histoires sans paroles", un manifesto sublime di folk-prog sinfonico che raduna le migliori qualità del gruppo, ampliandole mirabilmente. Gli intrecci virtuosi di chitarre, fiati e tastiere dipingono un arazzo sonoro cangiante, etereo e malinconico, col mellotron visionario ancora incombente, mentre la voce stavolta è lo strumento aggiunto in un insieme da brividi. Ancora più ambizioso è "L'Heptade" (1976), un doppio album dove la Montréal Symphonic Orchestra diretta da Neil Chotem affianca organicamente Serge Fiori e compagni, o sale in cattedra come nell'iniziale "Prologue". Per la prima volta, comunque, ci sono parti di batteria e squarci di rock vero e proprio all'interno di uno schema sempre raffinato: ad esempio "L'appel", o anche "Comme un fou", brani elaborati dove si ascoltano l'oboe e gli archi, oltre a synth e chitarra elettrica. "L'exile" è un altro lungo brano, con la voce di Fiori particolarmente intensa sullo sfondo orchestrale. Nel secondo disco, "Le corridor" è cantata a due voci dal leader e Monique Fauteux, ma si segnala soprattutto la suite "Lumières De Vie", divisa tra parti vocali e un pianoforte di sapore impressionistico, oltre a fascinosi momenti sperimentali, mentre "Comme Un Sage" è un lento crescendo di voci, piano e orchestra. Un altro grande album, che però chiude la parabola degli Harmonium, con il corollario di "En tournée" (1980), versione live del terzo disco, pubblicata senza il consenso del gruppo. Allo scioglimento della band, Serge Fiori incide diversi album da solista. Varie le ristampe in circolazione.

"Si on avait besoin d'une cinquième saison"

"Histoire sans paroles"

  Hatfield and the North   - Altro nome di spicco nella galassia canterburyana, gli Hatfield and the North nascono nel 1972 da una costola dei Caravan (David e Richard Sinclair) e altre formazioni minori dello stesso giro, come i Delivery. In realtà, David Sinclair viene presto rilevato da Dave Stewart (Egg), e quindi la band incide "Hatfield and the North" (1974), gran bel disco d'esordio che approfondisce la musica del gruppo-madre, storicamente il più melodico del Canterbury Sound. Si tratta di un album-collage, con frammenti anche brevissimi e tutti permeati dall'identico gusto per le soluzioni più eteree, malinconiche, sospese: un ruolo importante in questo contesto hanno sicuramente le voci, quella solista di Richard Sinclair e i delicati cori femminili delle tre Northettes, la più nota delle quali è Barbara Gaskin (ex-Spirogyra). In un brano come "Calyx" interviene splendidamente anche Robert Wyatt, col suo timbro inconfondibile. Nella composizione più lunga e rappresentativa, "Son of 'there's no place like Homerton'", si ascolta l'eccellente fraseggio di sax dell'ospite Geoff Leigh (Henry Cow), in un tessuto musicale sempre prezioso, sofisticato eppure miracolosamente godibile, tra le voci femminili e le tastiere di Stewart. Più spazio alla chitarra di Phil Miller e alle percussioni di Pip Pyle nel jazz-rock di "Rifferama", come nel più cerebrale "Shaving is boring". Tra piccole trovate, ironia e la sua atmosfera molto british l'album lascia il segno. La stessa formazione realizza quindi "The Rotters' Club" (1975), nel medesimo stile, con altri ospiti di riguardo, tra i quali Jimmy Hastings e Lindsay Cooper ai fiati. Tra i nove brani della raccolta spiccano tracce come "The Yes No Interlude", trascinante cavalcata sonora con il sax tenore, l'organo e il piano elettrico al proscenio tra i frequenti cambi di tempo, mentre lo strumentale "Lounging There Trying" è uno squisito jazz con la chitarra di Miller al suo meglio, assecondata a dovere da basso e batteria. Per il resto, "Fitter Stoke has a Bath" incanta per le belle aperture vocali di Sinclair in un contesto dominato dal flauto virtuoso di Hastings, ma forse il vero pezzo forte è la lunga suite in quattro tempi di "Mumps": se da un lato riporta al primo disco per le soavi voci delle Northettes, colpisce in particolare per la disinvolta mutazione stilistica all'interno della medesima atmosfera di fondo, sempre soffusa, ambigua e tecnicamente magistrale, con le tastiere morbide e i fiati in primo piano. Album eccellente, insomma, come il precedente. Una volta sciolta la band, Stewart e Miller formeranno poi i National Health. La ristampa in CD di "Rotters' Club" a cura della Virgin include ben cinque bonus-tracks tratte dall'antologia con inediti "Afters", pubblicata nel 1979. Nel 1990 una effimera reunion della band resta senza seguito, ma frutta almeno un disco come "Live 1990", pubblicato nel 1993. Info nel sito ufficiale.

"The Rotters' Club"

  Head Machine   - Un gruppo inglese che sottolinea perfettamente il passaggio dalle sonorità dei Sessanta ai fermenti del nuovo decennio, tra hard rock, psichedelia e solo un pizzico di proto-prog. Il nucleo va ricercato nella band The Gods, che Ken Hensley (chitarrista, cantante e tastierista) forma nel 1965, e dopo i primi 45 giri realizza due album: il terzo, registrato proprio con la diversa sigla Head Machine, è appunto "Orgasm", registrato alla fine del 1969 e pubblicato solo nel Maggio del 1970. Il quintetto, nascosto dietro nomi di facciata, include John Glascock (basso) e il fratello Brian alla batteria, oltre a Mike Road (percussioni) e il cantante/produttore David Paramor e suona nelle sette tracce un hard rock incisivo, seppure non sempre ben calibrato, con schegge di blues, psichedelia e una buona dose di melodia qua e là. Nell'attacco di "Climax-You Tried to Take It All" è la chitarra di Hensley a dominare la scena, affiancato dall'organo e il basso a supporto, mentre nella più cadenzata "The First Time", con il cantato più melodico, è proprio l'organo a guidare le danze. La lunga title-track schiera ancora la chitarra pesante di Hensley in primo piano intorno al canto di Paramor, e si sviluppa poi su lunghe variazioni solistiche e l'apporto decisivo di John Glascock al basso, tra distorsioni varie e un'accelerazione ad effetto nel finale: è tra i momenti più convincenti di una sequenza che alterna in verità alti e bassi. "Make The Feeling Last", ad esempio, è una semplice canzone pop per niente eccitante, mentre "You Must Come With Me" è un rock piuttosto ordinario, con il canto solista sulla base chitarristica e il ritmo cadenzato senza sorprese, come del resto l'epilogo di "Scattering Seeds", con la chitarra ancora protagonista e il refrain melodico che riecheggia un pop-rock molto sixty. L'atmosfera si fa invece più intimista e intrigante nella delicata "The Girl Who Loved, The Girl Who Loved", dove la voce si arricchisce di sfumature, cullata da una chitarra che a sua volta sceglie toni più morbidi. E' un album tutt'altro che irresistibile e anche datato, seppure a suo modo gradevole, che chiude subito la storia di questa meteora del rock inglese. Hensley farà in seguito grandi cose con i famosi Uriah Heep dopo essere transitato nei Toe Fat insieme ai fratelli Glascock: John Glascock, in particolare, suonerà più avanti con gli americani Carmen e quindi con i Jethro Tull. Varie le ristampe, in CD e vinile.

"Orgasm"

  Hero   - Il primo embrione degli Hero risale al 1970 quando Massimo Pravato, chitarrista di Pianiga (Venezia) suona negli Upupa di Udine insieme al tastierista inglese Robert Deller. Dopo circa due anni, dall'incontro con il batterista padovano Umberto Maschio, nasce quindi il nuovo trio che comincia a esibirsi in un locale di Monaco, dove viene notato da un discografico dell'etichetta tedesca Poliband. Registrato nel 1972, il primo e unico album degli Hero è un omonimo () che vede la luce solo nel 1974 a cura della Pan, un anno dopo la tragica scomparsa di Pravato in un incidente d'auto. Dopo un lungo oblio, il disco viene ristampato in versione digitale dalla BTF nel 2006 e rivela una sua forte personalità: è un hard progressive piuttosto inconsueto per la scena italiana dell'epoca, con testi in inglese ben allineati alle tonalità "dark" della musica. Nove pezzi decisamente di buon livello, con una registrazione che enfatizza proprio le cupe atmosfere che caratterizzano il sound del gruppo, a cominciare dall'apertura di "Merry Go Round", con la chitarra pungente di Pravato e la discreta voce di Deller. La chitarra solista e il timbro scuro dell'organo sviluppano in effetti i temi del disco con notevole affiatamento, ben supportati dalle percussioni, in una successione stilisticamente efficace. La lunga "Clapping And Smiling" è introdotta da una bella combinazione di chitarra acustica e pianoforte, con qualche sonorità sospesa vagamente psichedelica, come pure in "Sunday Best", umbratile e rarefatta per l'uso del vibrafono, mentre nei momenti di particolare tensione ("Crumbs Of A Day" o "Dew-Drops") l'organo e il piano di Deller spiccano per la ricerca di suoni sperimentali, assecondati dal chitarrista. Sul versante di un tipico dark prog molto incisivo si segnalano invece "Seminar", "Children's Game", dal riff chitarristico ossessivo, e "Knock", con il canto istrionico di Deller e la potente progressione della seconda parte. A conti fatti, è senz'altro doveroso rendere omaggio a una band senza fortuna e dunque riconoscere i meriti di un disco troppo a lungo dimenticato.

"Hero"

  High Tide   - Si tratta di una straordinaria band inglese, ampiamente fraintesa e penalizzata a dispetto dei suoi molti meriti. Fondati nel 1969 da Toni Hill (chitarra e voce solista), già attivo nell'ambito della psichedelia britannica, gli High Tide incidono due album agli albori dei Settanta prima di sciogliersi. L'esordio del quartetto, che fa a meno delle tastiere, è del 1969: "Sea Shanties"() è un disco che stupisce per l'intreccio davvero inedito e magistrale tra un rock decisamente hard, oscuro e potente, e il violino di Simon House. Nonostante la miopia di certa critica, questa musica suona davvero originale nel contesto della scena rock inglese: in particolare, i sei brani in scaletta offrono una sezione ritmica grintosa e martellante, con Peter Pavli al basso e il batterista Roger Hadden, che costituisce l'ossatura pressochè costante delle composizioni, ma lo schema si apre continuamente alle variazioni geniali del violinista, come in "Death Warmed Up", o della stessa chitarra del leader, secondo un modello che a tratti prefigura in qualche modo i secondi King Crimson più torbidi e metallici, ad esempio in "Pushed, But Not Forgotten", tra momenti rarefatti e lancinanti sfuriate chitarristiche. Altre volte, invece, la band recupera e reinventa con grande personalità certe atmosfere dei Doors: basta ascoltare soprattutto "Walking Down Their Outlook". Come se non bastasse, Toni Hill ha una voce davvero fascinosa, piena di sfumature, che ricorda sia John Wetton che Jim Morrison. Insomma, ci sono tutti gli ingredienti per fare di questo album un piatto ricco e pieno di attrattive per gli appassionati di sonorità diverse: è infatti un prog-rock psichedelico tanto audace quanto lontano, per una volta, dalle formule sinfoniche di maggior fortuna in quel periodo. L'anno seguente esce il secondo disco omonimo (1970) . La sequenza, rispetto al precedente, è forse meno monolitica nei suoni, ma ugualmente splendida, soprattutto in "The Joke" e nella danza acida della lunga "Saneonymous": ciò nonostante, l'album ripete purtroppo il medesimo insuccesso dell'esordio. Questi due dischi, tuttavia, costituiranno un inevitabile punto di riferimento per molta musica che verrà. La storia però non è ancora finita: dopo lo scioglimento e un lungo silenzio, solo nel 1987 gli High Tide tornano a incidere. L'album "Interesting Times" è pubblicato dall'etichetta Cobra, e in seguito il gruppo, con a capo stavolta il solo Hill, realizzerà "A Fierce Nature" e quindi "The Reason of Success" nel 1991. Il cantante forma poi un power-trio chiamato Tony Hill's Fiction, con un solo disco all'attivo intitolato "DNA, the Brain, the Universe" (2001). Quanto a Simon House, suona prima con Hawkwind e Third Ear Band, quindi realizza alcuni dischi da solista in ambito space-rock ed elettronica. Varie le ristampe oggi in circolazione, sia in CD che in vinile.

"Sea Shanties"

  Home   - Gruppo inglese che si forma a Londra nel 1970 e ottiene un contratto con la Epic Records, che pubblica il disco d'esordio "Pause for a Hoarse Horse"(1971). Il quartetto (due chitarre, basso, batteria) suona un rock melodico influenzato più dalla scena americana che dal progressive, ma gli undici episodi offrono comunque spunti interessanti. Fin dall'iniziale "Tramp" si segnalano la chitarra solista di Laurie Wisefield in trame di buona presa e la voce espressiva di Mick Stubbs, autore di quasi tutto il materiale. Se a tratti prevale un certo country-rock di buona fattura, come nella title-track o anche in "Mother", con l'apporto del violino, i momenti più brillanti coincidono con atmosfere diverse. Ad esempio la più riflessiva "Red E. Lewis & The Red Caps", la nervosa cadenza di "Bad Days", col mellotron di sfondo, e soprattutto "Moses", dove la chitarra di Wisefield è grande protagonista di un suggestivo crescendo insieme al canto solista. Il successivo "Home", pubblicato nel 1972, prosegue il discorso con qualche concessione in più al rock di scuola britannica, e la band ottiene un timido hit con il singolo "Dreamer". Il disco inanella otto tracce di rock molto melodico, con la voce solista ancora più in evidenza, ad esempio in morbide ballade come "Knave", la romantica "Dear Lord", e quindi "Western Front", col piano in appoggio e la chitarra liquida che ricama sul tema. Più solare l'atmosfera di "Rise Up", ben cantata da Stubbs, mentre nella lunga "My Lady of the Birds", dai toni rarefatti e intimisti, la raffinata chitarra di Wisefield mostra la sua vena migliore prima di un finale pirotecnico. Solo con il terzo e ultimo album, "The Alchemist"(), uscito nel 1973, il quartetto si cimenta con un classico concept di argomento esoterico, in linea col progressive dell'epoca, con i testi firmati da Dave Skillin (ex- Aardvark). Il pianoforte di Mick Stubbs, con iniezioni di synth, guadagna spazio e il suono, lontano da certi stilemi iniziali, si fa più fantasioso e complesso senza rinunciare alla melodia. Lo si nota in "The Sun's Revenge" o nella più acida "The Death of the Alchemist", ma anche nei brevi intermezzi di raccordo ("A Secret to Keep" per esempio). In una sequenza sempre vivace sono da segnalare soprattutto "The Old Man Dying", un tema rock di buona fattura, e quindi la visionaria "The Disaster", con qualche effetto di synth e la chitarra molto creativa di Wisenfield in primo piano, come pure nella lunga e variegata "The Disaster Returns (Devastation)", ricca di lunghi assoli ad effetto e con il basso di Cliff Williams in particolare evidenza. Il disco non procura tuttavia il successo sperato e la band si separa nel 1974, dopo il singolo "Green Eyed Fairy"/"Sister Rosalie". Wisefield, sempre molto attivo, entra poi nei Wishbone Ash e collabora tra gli altri con Tina Turner. Varie le ristampe in circolazione.

"The Alchemist"

  Hunka Munka   - Una delle sigle più curiose dei Settanta italiani, Hunka Munka è il nome d'arte scelto dal tastierista e cantante Roberto Carlotto. Originario di Varese, Carlotto si fa dapprima le ossa suonando in giro per l'Europa (Inghilterra, Germania, Svizzera) anche di supporto a rinomati artisti quali Colosseum e Rod Stewart, prima di rientrare in Italia e militare in un paio di formazioni tipicamente Beat: prima i Big 66, quindi i Cuccioli, dove suona anche Flavio Premoli (il futuro PFM), che registrano il 45 giri "La strada che cerco" / "Tu non sai" nel 1966. In seguito è tra i fondatori dell'Anonima Sound con Ivan Graziani, anche se non partecipa all'unico album realizzato dal gruppo urbinate. Il suo primo singolo come Hunka Munka è datato 1971: s'intitola "Fino a non poterne più" ed esce per la Ricordi. Voce notevole, con un vibrato che ricorda Demis Roussos, e grande sfoggio di tastiere sono già il suo tratto distintivo e caratterizzano anche l'album pubblicato nel 1972 sempre da Ricordi, "Dedicato a Giovanna G.". La sequenza allinea undici tracce che l'artista canta e suona con l'apporto del batterista Nunzio Favia (Osage Tribe) e di Ivan Graziani, in una mistura di melodia e umori prog che a volte colpiscono per la freschezza esecutiva, mentre in certi casi mostrano un'elaborazione ancora acerba, oppure troppo legata al decennio precedente. Tra i momenti che lasciano il segno si deve citare anzitutto "Ruote e sogni", con l'organo e la voce in evidenza all'interno di un pezzo di forte impronta barocca nel quale spicca anche la batteria di Favia, in una successione ad effetto di pause e riprese: emerge qui il lato più virtuosistico e la discreta verve del tastierista. Interessanti anche i testi scritti da Herbert Pagani, ad esempio la bella "Cattedrali di bambù", brano immaginifico per la performance vocale di Carlotto e un'impostazione sinfonica di indubbia presa. Ci sono poi episodi sperimentali non sempre riusciti ("Anniversario"), e canzoni di buon livello con arrangiamenti orchestrali ("Io canterò per te"), insieme ad altre senza troppe pretese, come "Giovanna G.", tra frizzanti parti di pianoforte e ironia. A parte tutto, Carlotto è un abile musicista che si destreggia da par suo sia al pianoforte che all'organo e al mellotron, oltre che un cantante dotato di mezzi non comuni, così che il suo unico disco suona ancora oggi godibile, qua e là perfino sorprendente, e sicuramente meritevole di un ascolto. Nel 1973 il tastierista entra nei Dik Dik insieme a Favia, col quale poi forma il duo Carlotto & Cucciolo. Dopo fasi alterne, si è quindi unito ai rinnovati Analogy nel 2011. Ristampe a cura di BMG.

"Dedicato a Giovanna G."