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Meteora della scena italiana dei Settanta, Gianni D'Errico merita senz'altro un posto tra le voci più interessanti del pop-rock italiano. Originario di Brindisi, dove nacque nel 1948, il cantante partecipa al Cantagiro del 1970 ("Mi stracci il cuore, mi stracci l'anima") senza ottenere riconoscimenti, ma intanto incide ben tre 45 giri, come "L'ultima esperienza" (1973), dove si precisa uno stile a base di coretti femminili, flauto e chitarre rock intorno al motivo melodico. Finalmente la Ariston gli consente di realizzare l'album "Antico teatro da camera" (![]() |
"Antico teatro da camera" |
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Da non confondere con un altro gruppo omonimo, di Brescia, nel quale militò per qualche tempo anche Mauro Pagani prima di approdare alla P.F.M., i Dalton, formazione invece di origine bergamasca, si stabilizzano a quintetto sotto la guida di Temistocle Reduzzi (tastiere/voce) e realizzano quindi il primo album di matrice progressiva: "Riflessioni: Idea d'infinito" (1973). La musica del gruppo lombardo, estremamente romantica e mai troppo complessa, si sviluppa in sei tracce con spazi strumentali dominati dal flauto brioso di Alex Chiesa, già nell'incipit di "Idea d'infinito", e in particolare nella malinconica "Stagione che muore", ma con una buona presenza della chitarra solista di Aronne Cereda: è il caso dello strumentale "Riflessioni", tra gli inserti del synth di Reduzzi. Si tratta perlopiù di un pop morbido e melodico, con vivaci guizzi rock, e caratterizzato spesso da liriche interessanti: si segnalano, in questo senso, "Un bambino, un uomo, un vecchio" e quindi, soprattutto, la bella "Dimensione lavoro", un episodio più aggressivo quasi in stile hard rock, e decisamente molto critico verso il falso mito del lavoro. Non manca neppure una parentesi melodica più tradizionale, come la mediocre "Cara Emily", ma i Dalton, nel complesso, sanno farsi apprezzare in un album che resta anche tra i più brevi del tempo, con una durata inferiore ai trenta minuti. Nello stesso anno la band si afferma al Festival Pop di Zurigo, ma dopo il singolo "La donna e il bambino"/"Il vuoto" (1974) Reduzzi e Chiesa escono dal gruppo, ed entra in organico il tastierista Giancarlo Brambilla, che in precedenza aveva suonato, con Cereda e il bassista Rino Limonta, nel gruppo dei Puritani. Con questa nuova formazione viene realizzata la seconda prova discografica dei Dalton: "Argitari"(1975). E' una sequenza deludente di nove tracce in uno stile pop-cantautorale ("L'impossibile è possibile"), liriche modeste ("Ho ritrovato la mia donna" o "La forza di Dio"), una cover da Dylan ("La risposta", cioè "Blowin in the Wind") e sporadiche fiammate rock ("Visione di una notte d'estate"), con la voce di Cereda sempre in primo piano insieme alle tastiere, ma nelle ristampe ci sono parti di flauto sovraincise rispetto all'originale. Seguono quindi un paio di singoli tra il 1977 e il 1979 ("Monia" e "Presto tornerò"), che preludono allo scioglimento della band. Va pure ricordato che Reduzzi e Cereda hanno concepito una pop-opera intitolata "Paciana Story" (1975), mentre il batterista Walter Locatelli ha formato il gruppo Mo.Do. più avanti. Sembra finita, ma nel 2018 Cereda ha riunito alcuni dei membri storici per registrare un nuovo album come "Eden", pubblicato nel 2019 da AMS. Oltre alle ristampe in CD con bonus-tracks, vanno segnalate quelle in vinile a cura di Vinyl Magic e BTF. |
"Riflessioni: idea d'infinito" |
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Il nome dei Dark, band formata a Northampton nel 1968, rappresenta molto bene tutto il sottobosco dell'underground inglese dei primi anni Settanta. Il loro unico album realizzato è "Round the Edges", autoprodotto e pubblicato nel 1972 in poche decine di copie. Diventato anche per questo, nel tempo, una sorta di oggetto misterioso per i collezionisti, è semplicemente un discreto esempio di prog chitarristico, asciutto ed essenziale nelle sue geometrie compositive che fanno a meno delle tastiere. Il gruppo nasce in effetti come trio, ma dopo un paio di sedute insoddisfacenti nell'arco di circa due anni, al momento dell'incisione il chitarrista e cantante Steve Giles viene affiancato da un secondo chitarrista come Martin Weaver, oltre al bassista Ron Johnson e al batterista Clive Thorneycroft. La chitarra solista, in buona combinazione con la seconda, domina incontrastata per tutti i sei episodi che compongono l'album, definendo uno stile prog dalle marcate sfumature psichedeliche, mai troppo sopra le righe, e una buona verve di fondo, pur senza mai toccare i vertici di eccellenza di altri protagonisti della scena britannica del tempo. Lo schema di base è già ben delineato nel brano di apertura, "Darkside", dove il chitarrismo di Giles trova efficace sponda nel basso, e si dirama in una serie di variazioni all'insegna di un moderato crescendo con brevi parti vocali dello stesso Giles: è senza dubbio uno dei picchi della sequenza. Bella anche la tensione ritmica di "R. C. 8.", episodio più serrato degli altri, grazie alla buona vena del duo ritmico nelle frequenti spezzature e riprese del tema, così come accade nella finale "Zero Time", aperta da cupe distorsioni e segnata poi da impetuosi scrosci di chitarra, con basso e batteria molto efficaci nello schema. Più scorrevole sulla chitarra ritmica di Weaver è invece lo sviluppo di "Maypole", inquadrata dalle potenti linee del basso, come pure "Live For Today", con effetti anche ridondanti: tutti episodi sempre caratterizzati dalla voce interessante di Giles, ora indolente e ora più aspra, che connota l'intera sequenza. Scomparsi dalle cronache intorno al 1977, anche per l'assenza di una promozione adeguata, i Dark vanno comunque ricordati per l'onesta fattura di una proposta forse non travolgente, ma sempre interessante e di buona caratura tecnica. Nel tempo sono usciti alcuni dischi con materiale d'archivio: da "The Jam 1975" (1990) a "Teenage Angst" (1994). Il disco del '72 è stato ristampato sia in vinile (Akarma) che in CD (Progressive Line e altri), con varie bonus tracks. |
"Round the Edges" |
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Questo gruppo dell'area di Varese, poi trasferito a Milano, prende il suo nome da una famosa modella americana (all'anagrafe Diane Lind) che fu playmate nell'Agosto 1967 della nota rivista "Playboy", e si forma proprio sul finire degli anni Sessanta. Con ben tre 45 giri realizzati tra il 1969 e il 1971, in particolare "Signore, dove va?", che già stabilizza uno stile romantico caratterizzato dal flauto alla Jan Anderson, la band si fa notare rapidamente nell'affollata scena rock dell'epoca e suona in diversi festival: ad esempio il Davoli Pop di Reggio Emilia nel 1972. Realizza quindi per l'etichetta Mercury il suo unico album, rimasto celebre anche per il lunghissimo titolo: "Io non so da dove vengo e non so dove mai andrò. Uomo è il nome che mi han dato" (1973), costituisce in realtà il testo integrale dell'ultimo pezzo della raccolta ("E poi"). La musica offerta nelle sette tracce del disco dal quintetto lombardo (voce/chitarra, fiati/tastiere, chitarra, basso e batteria) è dominata dalle chitarre acustiche insieme al flauto molto versatile di Gilberto Trama, prima ancora che dalle tastiere, sempre in secondo piano negli equilibri strumentali. A parte qualche episodio più ritmico e roccheggiante, come l'iniziale "Fuga e morte", che vive di pause e riprese, l'album è piuttosto discontinuo nel suo sviluppo, ma i momenti d'interesse, comunque, non mancano affatto: atmosfere sospese e rarefatte, di buona suggestione romantica, si alternano a improvvisi sussulti in chiave dark rock guidati dall'aggressiva chitarra elettrica di Matteo Vitolli. C'è spesso un'aria incombente e visionaria, come in certe introduzioni misteriose dove si segnala l'uso dei timpani da parte del batterista Ricky Rebajoli, in precedenza nei New Dada e poi con i Nuovi Angeli. Molto rappresentativo del suono-De De Lind è un brano come "Smarrimento", con il flauto costantemente in primo piano, supportato da vibranti incursioni chitarristiche che poi chiudono il pezzo dopo il delicato inserto vocale e inserti di corno. Di grande effetto, in generale, sono proprio i testi cupamente trasognati che colorano di riflessi umbratili anche la parte musicale: è soprattutto il caso di "Paura del niente" e poi di "Cimitero di guerra", firmati come gli altri dal cantante Vito Paradiso. Il quintetto, con il nuovo batterista Fabio Rizzato, partecipa anche ad importanti eventi live dopo l'uscita dell'album, come la Prima Rassegna di Musica Popolare a Roma e il Be-In di Napoli, ma si scioglie lo stesso anno. Vito Paradiso diverrà cantautore senza troppa fortuna alla fine del decennio, realizzando alcuni singoli e due album: "Noi belli, noi brutti" (1978) e quindi "Per lasciare una traccia" nel 1980. Ristampe anche in vinile da BTF/Vinyl Magic e Mercury. |
"Io non so da dove vengo..."
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Una band inglese senza fortuna le cui origini risalgono al 1969, quando la Shoo String Band, che suona musica soul, da Chelmsford si trasferisce a Londra. Dopo alcune esibizioni live nella capitale, il chitarrista Chris Baker e il batterista John Clements decidono però di formare un nuovo gruppo in stile progressive e si uniscono a Barry Everitt (voce e tastiere) e Dave Sewell (basso). Dopo lunghi tour in giro per l'Europa, i Dear Mr. Time reclutano quindi il fiatista Jim Sturgeon e ottengono un contratto con la Square Records per registrare il loro primo album, "Grandfather". Programmata per la fine del 1970, la pubblicazione avvenne solo nel Febbraio dell'anno successivo e a causa di una distribuzione quasi inesistente il disco passò del tutto inosservato: deluso dal responso, il gruppo si sciolse poco dopo. Si tratta comunque di un concept-album imperniato sulle tappe salienti nella vita di un uomo, dalla nascita alla morte, diviso in dodici capitoli quasi tutti di breve durata. L'equilibrio strumentale poggia soprattutto sui fiati di Sturgeon (flauto e sax), con la chitarra di Chris Baker in bella evidenza, e le tastiere leggermente più defilate. Il momento più felice è forse "Out of Time", una sincopata rock-song di buona presa, scandita dal piano e dalla pungente chitarra solista, con la voce filtrata di Everitt e il basso pulsante. Di buon livello anche "Light Up A Light", costruita sull'organo, ma con frequenti breaks ritmici guidati dal sax, e la più nervosa "Make Your Peace", l'unico brano a superare i cinque minuti, con il flauto e il sax di Sturgeon in primo piano insieme al vivace lavoro della sezione ritmica. Più o meno nella stessa scia, ma ancora più grintosa è "A Dawning Moonshine", con timidi inserti dell'organo all'interno d'uno schema piuttosto aggressivo, dominato da sax e chitarra. Tra gli altri episodi si segnala l'atmosfera cameristica dello strumentale "Prelude", con gli archi e il mellotron a dominare un disegno sonoro che ricorda da vicino certe cose dei Moody Blues, mentre non mancano un paio di ballate costruite sulla chitarra acustica e le voci corali: ad esempio "Years And Fortunes" o anche "A Prayer For Her", quasi in stile "country". Le voci sono di buon livello e gli strumentisti mostrano discrete qualità, anche se nel complesso all'unico album firmato Dear Mr. Time manca la soluzione ad effetto capace d'imporli all'attenzione del pubblico: il loro prog dalle tinte romantiche, qua e là datato e in parte legato alla forma-canzone, rimane però apprezzabile e di piacevole ascolto. Varie le ristampe, anche in vinile. Notizie nel sito ufficiale. |
"Grandfather" |
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Con una sigla che sembra rimandare all'opera di Giovanni Boccaccio, questo gruppo inglese fondato da Johnny Coppin a Cheltenham nel 1968, ha realizzato quattro dischi di morbido e melodico progressive folk nel corso dei Settanta. Dopo i primi due album realizzati tra il 1973 e il '74 ("Say Hello To the Band" e "Mammoth Special") il momento migliore della band britannica coincide forse con l'uscita di "Third Light" (![]() |
"Third Light" |
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Originari della provincia di Torino (Pinerolo), i Dedalus appartengono alla schiera dei gruppi penalizzati da un mercato che privilegia l'ovvio e le formule più sperimentate del grande circo rock. I quattro componenti (tastiere/violoncello elettrico, chitarra/sax, basso e batteria) suonano invece, sin dall'esordio omonimo (1973)![]() |
"Dedalus" |
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Donella Del Monaco - Dopo l'esperienza con gli Opus Avantra, la cantante Donella Del Monaco inizia una sua personale ricerca che potremmo definire di frontiera, sempre in bilico tra musica colta (data anche la sua prima formazione lirica) e il repertorio etnico/popolare. Un percorso che sembra allontanarsi dall'ambito strettamente progressive, mentre per altri versi ne rispetta in pieno certe premesse di apertura a ogni tradizione musicale ancora vitale. In questo senso è sorprendente la felicità espressiva di alcuni episodi discografici, come la rivisitazione della tradizione veneziana e veneta. "Merica Merica" (2000) riprende e spesso riadatta canti legati alla massiccia emigrazione oltreceano di fine Ottocento, ma anche quella più tarda verso il nord Europa (vedi la bellissima "Minatore", in stile liederistico), come pure della ricca tradizione contadina, con il contributo di Paolo Troncon e il gruppo Barbapedana. "Venexia de oro" (1999)![]() ![]() |
"Chanson Satie" |
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Tra i primi gruppi italiani ad uscire dalla fase del beat, i genovesi Delirium, precedentemente conosciuti come Sagittari, ottengono un precoce successo con il singolo "Canto di Osanna" (1971), che li fa notare al primo Festival Pop di Viareggio. Con queste credenziali, i cinque (tastiere, chitarra, basso, batteria, flauto/voce) si presentano quindi all'appuntamento con il primo album: "Dolce acqua" (1971)![]() |
"Dolce acqua" |
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A lungo caduti nell'oblio per mancanza di ristampe fino alle soglie del 2000, i Delivery firmano in realtà uno dei dischi più brillanti usciti a cavallo di Sessanta e Settanta. Si formano a Londra nel 1966 come Bruno's Blues Band, su iniziativa di Phil Miller (chitarra) e suo fratello Steve (pianoforte), insieme al batterista Pip Pyle e al bassista Jack Monck, ma già nel 1968 si unisce al gruppo il sassofonista Lol Coxhill (ufficialmente come ospite), mentre l'anno seguente Monck è rilevato da Roy Babbington e soprattutto arriva la cantante Carol Grimes. La formazione realizza nel 1970 il singolo "Harry Lucky" / "Home Made Ruin" e quindi l'album "Fools Meeting" (![]() |
"Fools Meeting"
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Tra i gruppi di valore emersi dal ribollente calderone del prog settantiano europeo che non hanno avuto il giusto riconoscimento ci sono anche gli svedesi Dice. Stabilizzatasi solo intorno alla metà del decennio, la band di Stoccolma registra nel 1977 una suite interamente strumentale, "The Four Riders of the Apocalypse" (![]() |
"The Four Riders of the Apocalypse" |
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Noto flautista inglese, per sua stessa ammissione ispirato da Roland Kirk e Severino Gazzelloni, l'eclettico Bob Downes (classe 1937) vanta molteplici esperienze in bilico tra free jazz, avanguardia e progressive. Oltre a svariate collaborazioni, dalla Manfred Mann’s Earth Band a Keith Tippett, nel 1968 Downes forma il suo Open Music Trio, con il quale realizzerà diversi dischi. Il primo è "Open Music" (1970), inciso con una formazione nella quale spiccano il batterista Dennis Smith e il bassista Harry Miller, insieme ad altri fiatisti. Downes suona diversi tipi di flauto, sax tenore e contralto, ma anche percussioni. La lunga "Dream Journey" iniziale, vero cuore del disco, fu composta come musica per la piece "Blind Sight" del Ballet Rambert, presentato a Londra il 27 Novembre 1969. Divisa in due segmenti, è una composizione rarefatta che porta al proscenio il flauto insieme ai timpani di Derek Hogg, prima che entrino in scena il sax e quindi il flauto pirotecnico di Downes nella seconda parte, s'una ritmica jazz scandita dal contrabbasso. Il flauto del leader domina in solitaria tracce come l'evocativa "Birth of Forest", mentre in altri episodi è affiancato da basso e percussioni: si segnala la multiforme "Ghosts In Space", con il contrabbasso di Miller protagonista accanto alle spirali flautistiche. Il free jazz trionfa nella più corposa traccia finale, "Electric City", con Downes stavolta al sax in uno schema aperto che include anche inserti chitarristici di Chris Spedding. Disco interessante, ma sicuramente ostico per il circuito rock, ha il merito di aver fatto conoscere uno strumentista come Downes, poi premiato come miglior flautista jazz. Lo stesso anno l'artista realizza due altri dischi. "Deep Down Heavy" è il più curioso: un autentico reperto dell'underground britannico catturato nei suoi umori più eclettici e spontanei, fino al caos. Dodici tracce dove troviamo tutto, dai versi letti dal poeta Robert Cockburn alle forme musicali più diverse. Si passa dal quasi hard rock di "Too Late" agli acquerelli per il flauto di Downes ("Day Dream"), ma ci sono anche energici funky-jazz col sax in primo piano ("Don't Let Tomorrow Get You Down") e torridi rock-blues ("Got No Home"), fino al delirio lancinante e ossessivo di "Thebes Blues", per sax e chitarre. La produzione è approssimativa, le voci spesso mal calibrate e il suono debordante, eppure l'insieme ha il fascino dei documenti sonori che immortalano un'epoca. Più fruibile e meglio prodotto è invece "Electric City", nel quale Downes mette insieme undici pezzi d'impostazione jazz-rock, a partire da "No Time Like the Present". Davvero splendido il suo flauto in "Keep Off the Grass", episodio di classe al pari di "Dawn Until Dawn", stavolta con il sax protagonista. Oltre ai pezzi cantati da Downes stesso, come "Go Find Time" o la dolce "In Your Eyes", cullata dal flauto e poi rinforzata da trombe e chitarra, il meglio sta proprio nelle tracce strumentali: "Crush Hour" è un affilato jazz-rock urbano, e la chiusura di "Gonna Take a Journey" una jam improvvisata con il basso in evidenza sotto il gioco teso e imprevedibile dei fiati. Nessuno di questi tre dischi ha successo, e Downes si ripropone solo nel 1974 con "Diversions", seguito poi da "Episodes at 4 AM", altro progetto su commissione. Alla fine dei Settanta, il fiatista emigra quindi in Germania dove realizza nuovi dischi. Sempre numerose le sue collaborazioni e i lavori per balletti e opere teatrali. Altre notizie in questo sito. Ristampe Esoteric. |
"Electric City" |
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Dietro la sigla si cela il tastierista e cantante Keith Keyes (Keith Morris all'anagrafe), un estroso personaggio della scena inglese che realizza per la Vertigo il concept-album "Three Parts to My Soul" (1971). I testi sono basati sull'idea che l'anima umana è divisa in tre parti principali: Spiritus, volta al bene e alla virtù, Manes, incline al bene ma corruttibile, e infine Umbra, il cui destino è rimanere prigioniera sulla terra. La formazione che suona nell'album è un trio con Keyes alle tastiere, coadiuvato dal batterista Bob Watkins e dal bassista Rob Watson: il risultato è un disco dall'impronta piuttosto severa, dove le tonalità ossessive e martellanti sono l'esatto riflesso dei testi pessimistici del leader. Piano e organo guidano questa sorta di danza tenebrosa intorno al senso dell'esistenza, con un ruolo interessante delle percussioni spesso protagoniste: in particolare nella lunga "Spiritus, Manes et Umbra", il pezzo-chiave della sequenza, con un lungo assolo alla batteria di Watkins. Dal canto suo, Keyes canta con una certa convinzione le proprie liriche, passando dai toni beffardi a quelli più drammatici e aspri, come nell'attacco di "Evil Woman's Mainly Child" (l'anima dilaniata tra la coscienza e il male), riuscendo a esprimere al meglio la tensione morale che domina le composizioni. Poche le eccezioni a questo clima cupo, anche se "Burn in Anger" si apre sulle note più pacate di flauto e pianoforte prima di svilupparsi tra picchi d'intensità e intervalli pensosi s'una voce solista che può ricordare Peter Hammill, e le liriche di "Summer For the Rose" citano il Kyrie Eleison. Tra gli altri brani, marziale e sinistra la progressione di "Too Well Satisfied", ancora con le percussioni e le sincopi del pianoforte in evidenza, mentre nel lungo epilogo di "In a Token of Dispair" la voce rassegnata viene poi suffragata dal toccante coro "Dies Irae" al momento del giudizio finale, con inserti pirotecnici del basso di Rob Watson. Asciutto e privo di sbavature, ma forse un po' monocorde a tratti, "Three Parts to My Soul" si collega in qualche modo al filone esoterico di certo underground più oscuro, con insolito rigore espressivo e accenti più accorati della media e merita senz'altro un ascolto. La raffinata riedizione in CD dell'Akarma include come bonus i due pezzi, stilisticamente molto più briosi, dell'unico singolo del gruppo uscito nel 1970: "Lady Ladybird "/"People In the Street". |
"Three Parts to My Soul" |
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Band neozelandese originaria di Auckland, formata nel 1972 e imperniata sui fratelli Todd e Mark Hunter, rispettivamente basso e voce solista. Il gruppo ha avuto una carriera longeva, ma travagliata e musicalmente divisa in due parti ben distinte: la prima, vissuta in patria, cade chiaramente sotto il segno del progressive rock, come si evince dal disco d'esordio realizzato nel 1974 per la Vertigo, "Universal Radio". Strutturato in sei tracce, l'album è ricco di interesse: un eclettico prog con il basso spesso in primo piano, e la bella voce di Mark Hunter al centro di intriganti trame strumentali, con l'organo spesso protagonista. È il caso della title-track iniziale, con l'uso massiccio delle percussioni in un crescendo atmosferico di buona presa, ma soprattutto di "Patina", una jam sorprendente dai tratti gotici, che procede s'un tema ricorrente dell'organo di Ivan Thompson, ben assecondato dal basso di Todd Hunter in una serie di pause e riprese, tra frequenti spezzature ritmiche, la voce irrequieta, e vivaci spunti di synth e chitarra solista. "Graves" si apre sulle note psichedeliche di synth e organo, inglobando lunghe parti cantate insieme a serrati dialoghi di basso e batteria, fino alla chiusura di "Avalanche", che culmina in un finale di grande pathos con la chitarra in primo piano. Più rifinito è il secondo disco, "Scented Gardens for the Blind" (1975) ![]() |
"Scented Gardens for the Blind"
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La sfortuna dei Druid, band formata nel 1971 a Berkhamsted, è di non aver raggiunto l'appuntamento discografico 3-4 anni prima, quando il mercato li avrebbe sicuramente premiati. Quando invece esordiscono con "Toward the Sun", nel 1975, il loro progressive melodico e romantico appare inevitabilmente un po' datato. Peccato, perché anche senza far gridare al miracolo il quartetto inglese ha discrete carte da giocare, e i sette brani dell'album si segnalano per una vena morbida, colorata e molto vicina alle atmosfere degli Yes, soprattutto nelle parti vocali, dominate dal falsetto del chitarrista Dane Stevens, quasi un clone di Jon Anderson: "Remembering" ad esempio. Nei passaggi strumentali, come in "Theme", molto mellotron e pianoforte (Andrew McCrorie-Shand), note cristalline di chitarra e gradevoli armonie classicheggianti, in un insieme sempre ben congegnato. Spiccano in questa sequenza l'intimismo rarefatto di "Red Carpet For an Autumn" e soprattutto la più lunga e corposa "Dawn of Evening", che cresce sul mellotron e si ramifica poi con eleganza sul cantato. Nel medesimo organico dell'esordio, il gruppo realizza quindi il secondo e ultimo disco, "Fluid Druid" (1976)![]() |
"Fluid Druid" |
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Nel 1973, prodotto da Gian Piero Reverberi, viene realizzato per la Produttori Associati l'album omonimo(![]() |
"Duello Madre" |
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Una formazione francese originaria di Nantes, dove si mette insieme nel 1976. Dopo due sigle come Vegetaline Boufiol e poi Kan-Daar, il nome scelto alla fine è quello che richiama il ciclo di romanzi "Dune" dello scrittore americano di fantascienza Frank Herbert. Schierati a sei, sotto la guida del chitarrista Jean Geeraerts e del flautista Pascal Vandenbulcke, i Dün si dedicano a un'intensa attività live nella regione di Nantes, dove si guadagnano una discreta fama, suonando anche di spalla ai più celebri Magma. Nel 1980 il sassofonista Philippe Portejoie abbandona il gruppo, mentre fa il suo ingresso il percussionista Alain Termolle, e finalmente la band è pronta per registrare il suo primo e unico album "Eros" (![]() |
"Eros" |
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