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T

T 2 Taï Phong Tamam Shud Tantra Tasavallan Presidentti Tea And Symphony I Teoremi Terpandre

Terreno Baldio Tetragon Third Ear Band Time (Croazia) Time (UK) Titus Groan Tonton Macoute Total Issue Trace Tractor Trees Trefle

Trettioåriga Kriget Triade Triana Triangle Triode The Trip Triumvirat Troya Tudor Lodge Twenty Sixty Six and Then

 

 

  T 2   - Un singolare trio inglese di hard progressive che nella sua troppo breve storia ha saputo comunque lasciare un segno duraturo tra gli appassionati e la critica di settore. I T 2 si formano a Londra nel 1970 dall'unione di Keith Cross, diciassettenne chitarrista e tastierista di grandissimo talento, con i più esperti Peter Dunton (voce e batteria) e Bernard Jinks (basso), i quali avevano già suonato insieme in band psichedeliche come Neon Pearl e Please. Subito notissimi nel circuito londinese per le loro pirotecniche esibizioni dal vivo, i tre realizzano quindi il loro album d'esordio "It'll All Work Out in Boomland" (1970) per la Decca Records. Il disco, composto di sole quattro tracce, è sicuramente tra le cose più originali di quel periodo ricco di molteplici fermenti per la scena rock inglese: il suono del trio ha infatti un fascino unico, figlio in pari misura di una tecnica sopraffina e di un affiatamento notevole, davvero raro per musicisti insieme da così poco tempo. Il rock è tagliente e spesso decisamente heavy, con la scintillante chitarra di Cross in primo piano, ma spesso attraversato da atmosfere più romantiche, e non di rado acustiche. La voce malinconica di Dunton caratterizza soprattutto la lunghissima "Morning", oltre ventuno minuti indimenticabili per il pathos e la bella tensione strumentale, e probabilmente il picco assoluto dell'album. Più compatte sono invece l'iniziale "In Circles", una torrida e affilatissima cavalcata elettrica, e poi "No More White Horses", pure attraversata da toni dolenti e furiose accensioni che esaltano ancora la chitarra solista di Cross, mentre un brano come "J.L.T." riposa in un'atmosfera più solare, con un arrangiamento orchestrale sottolineato a dovere da chitarra acustica e pianoforte. Nonostante l'entusiasmo di pubblico e stampa all'uscita del disco, e le numerose partecipazioni ai maggiori eventi live dell'epoca, incluso il celebre Festival dell'Isola di Wight, la band si sfalda dopo la defezione di Cross, e anche Dunton, dopo aver tenuto in piedi la sigla T 2 per un paio d'anni, deve gettare la spugna. Incide poi a suo nome il singolo "Taking Time"/"Still Confused" (1973). Molto più avanti, grazie alla fortunata riedizione del primo disco in alcuni paesi (Giappone, Corea, Germania), sono usciti altri album, ma solo "T 2", del 1997 (conosciuto anche come "Fantasy" o "1970"), presenta registrazioni inedite della formazione originale per un secondo disco poi sfumato. La ristampa su CD della World Wide contiene anche tre vibranti bonus-tracks, registrate in diretta negli studi della BBC.

"It'll All Work Out in Boomland"

  Taï Phong   - Una formazione francese di Sceaux, fondata nel 1972 dai due fratelli di origine vietnamita Khanh Mai (voce e chitarra) e Taï Sinh (basso, voce, chitarre): il nome scelto significa appunto "grande vento" in lingua madre. Il primo album omonimo (), nel quale i due fratelli sono affiancati da tre altri musicisti come il chitarrista e cantante Jean-Jacques Goldman, più avanti noto solista, e il tastierista Jean-Alain Gardet, esce nel 1975. La sequenza allinea episodi di sicuro impatto a partire da "Goin' Away", una melodia nervosa con le chitarre in primo piano e una dinamica alternanza di pause e ripartenze, come pure in "Crest", episodio dal ritmo sostenuto per organo e chitarra. Sul versante più melodico "Sister Jane", grande successo come singolo, è costruita con perizia sul pianoforte, l'organo di sfondo e la bella voce di Goldman in un impasto che ricorda le pagine migliori dell'Art Pop inglese. I Taï Phong mostrano comunque un talento versatile, senza mai perdere di vista l'aspetto più morbido e sognante. Si segnala soprattutto la raffinata "For Years and Years (Cathy)", avvolgente composizione che procede sulle morbide tastiere di Gardet, ma con ficcanti breaks chitarristici, mentre la lunga chiusura di "Out of the Night" esalta il lato sinfonico del suono, con l'organo e il synth in evidenza insieme alle voci corali, in un contesto vagamente floydiano di buona suggestione, incluso un lungo solo chitarristico. Il medesimo quintetto realizza poi "Windows" nel 1976: la ricetta è la stessa, un abile punto d'incontro tra un pop melodico sempre più etereo e trame sinfoniche di buona fattura. L'apice di questa tendenza è forse "St John's Avenue", con le voci corali incastonate in una placida progressione dominata da tastiere liquide e chitarre, ma anche "Circle" segue la stessa ispirazione, sognante e quasi rarefatta. Per il resto, "Games" è una morbida ballata che prova a replicare il successo di "Sister Jane", mentre dal punto di vista strumentale i momenti migliori sono la briosa apertura di "When it's the Season", con l'organo e le chitarre sempre protagoniste insieme al pianoforte nell'ultima parte, e quindi l'epilogo ambizioso della lunga "The Gulf of Knowledge", immersa in un'atmosfera orientale, con synth, percussioni e chitarre acustiche in primo piano. Dopo alcuni 45 giri, il terzo disco è invece "Last Flight" (1979), realizzato però senza Jean-Alain Gardet (che entra negli Alpha Ralpha) e Tai Sinh, rilevati da Pascal Wuthrich (tastiere) e Michael Jones (basso e voce). Lontano dalle soluzioni prog più tipiche, è ancora un album discreto, all'insegna di un pop accattivante e ben suonato, con le voci sugli scudi: vanno citate almeno "End of an End", "Farewell Gig in Amsterdam" e la stessa title-track. Dopo lo scioglimento, nel 1995 una nuova versione della band ha ripreso l'attività e nel 2000 è stato quindi pubblicato "Sun".

"Taï Phong"

  Tamam Shud   - Questa formazione australiana nasce alla fine del 1967 a Sydney sulle ceneri di un altro gruppo chiamato The Sunsets, dove già suonavano tre membri della nuova band: il nome scelto significa "compiuto" (o "finito"), ed è tratto dal libro in versi "Rubaiyat" ("Quartine") del poeta persiano dell'XI° secolo Omar Khayyam. Il primo album, pubblicato dalla CBS, è "Evolution" (1969), suonato da un quartetto senza tastiere, con la chitarra di Zac Zytnik in primo piano insieme al basso di Peter Barron. I Tamam Shud si rifanno alla psichedelia più ruspante dei '60, con influssi di Cream, Hendrix e simili, come si nota dalla sequenza iniziale "Music Train/Evolution", scandita dal basso intorno al canto solista di Lindsay Bjerre, che firma tutti i pezzi. E' una sequenza piuttosto ruvida, senza troppe complicazioni, ma comunque di buona presa, tra lunghe parti di chitarra e una sezione ritmica aggressiva: ad esempio "Mr. Strange" o anche la ruggente "Feel Free". Spesso la chitarra acustica affianca quella elettrica in brani che richiamano i Beatles ("Lady Sunshine") o domina parentesi più pacate ("I'm No One"), ma il basso rombante di Barron è l'elemento decisivo di quasi tutto l'album: si ascolti soprattutto "Falling Up" e il trascinante epilogo di "Too Many Life". Un disco che mostra indubbie qualità, ma solo il successivo innesta sonorità prog sulle radici psichedeliche. Intanto Zytnik abbandona, e al suo posto subentra un talentuoso chitarrista sedicenne come Tim Gaze: il risultato è "Goolutionites And The Real People" (), pubblicato nel 1970. Dietro un'apparenza vagamente concept, la band appare più solida e la sequenza più brillante, con soluzioni più eterogenee rispetto all'esordio, già nell'attacco in sordina della title-track seguito dalla trascinante "They'll Take You Down On the Lot", con una sezione ritmica in grande spolvero, specie la batteria di Dannie Davidson. Anche il canto di Bjerre è migliore e lo dimostra la splendida "I Love You All", un rock segnato dagli spunti chitarristici di Gaze in uno schema circolare di grande effetto. Sorprendente suona "Heaven Is Close", dalla scansione oscura intorno a una voce dolente e un lavoro chitarristico in magnifico crescendo, come pure la seguente "A Plague", sviluppata a dovere sul basso di Barron e una chitarra prolifica e mai banale che lascia il segno. Tiratissima è pure "Stand In The Sunlight", che cattura nel suo giro mordente, mentre il disco si chiude con le due parti di "Goolutionites Theme", che riprendono e sviluppano l'attacco della sequenza. E' un ottimo album, con molteplici spunti di valore, ma quando Gaze e Davidson escono dal gruppo per fondare i Kahvas Jute, la band va in crisi e si scioglie dopo un ultimo singolo nel 1972. Solo nel 1994 un'effimera reunion ha partorito un disco intitolato "Permanent Culture", e altro ancora. Ulteriori informazioni sono disponibili in questo sito. Ristampe in vinile e CD con bonus-tracks.

"Goolutionites And The Real People"

"Heaven Is Close"

  Tantra   - Forse la maggiore attrazione prog di una scena molto defilata come quella portoghese, i Tantra si formano a Lisbona nel 1975 ad opera di Manuel Cardoso (chitarra) e Armando Gama (tastiere), presto affiancati dal bassista Américo Luis e altri: in questa prima fase esce solo un singolo nel 1976. L'arrivo del percussionista Tó Zé Almeida stabilizza il quartetto che realizza nel 1977 il suo primo album, "Mistérios e Maravilhas". E' un esempio di solido prog-rock venato da influenze romantico-classicheggianti, suonato però con bella personalità sin dalla traccia d'apertura, "A beira do fim": tastiere in primo piano, con largo uso di synth, ma anche una forte impronta ritmica tipicamente latina. Il duttile pianoforte di Gama introduce la title-track strumentale, misteriosa ed evocativa, con il basso di Americo Luis in evidenza nelle cangianti atmosfere del pezzo. Sonorità esotiche quasi fusion connotano la lunga "Maquina de felicidade", ancora infarcita di passaggi suggestivi con la chitarra solista di Cardoso che cresce d'intensità sul tappeto di synth, e frequenti cambi di tempo del vivace percussionista. Meno originale la chiusura di "Partir sempre", prima melodica, con le liriche in portoghese, e poi dominata in lungo e largo dalla chitarra solista. Sicuramente si tratta di un buon esordio, ma il secondo album pubblicato nel 1978, "Holocausto" (), appare in confronto più rifinito e maturo. Nei testi come nella musica prevale una forte impronta spirituale, quasi mistica (il disco è dedicato ad un guru), che conferisce all'intera sequenza un fascino speciale. Il nuovo entrato Pedro Luis, che rileva Gama, utilizza un ricco parco-tastiere che incornicia a dovere il canto solista di Cardoso a cominciare dall'apertura maestosa di "Om" e poi nella lunga "Holocausto/Ultimo raio do astro rei", un episodio che si regge su vivaci contrasti ritmici e belle aperture melodiche. Sempre prezioso l'apporto di basso e batteria, decisivi nello smussare i passaggi tonali più repentini con un lavoro di raccordo molto brillante: lo si vede anche nella breve "Zephyrus" e in "Talisma", con le sue intense progressioni guidate dalla chitarra elettrica, mentre la finale "Π", ancora con la chitarra protagonista, mostra una riuscita convivenza di jazz-rock modernissimo e accattivanti parti vocali. Dopo un'intensa stagione dal vivo, il gruppo incide un terzo disco come "Humanoid Flesh" (1981), con testi in inglese e sonorità diverse, che non trova però buona accoglienza e porta allo scioglimento. Nel 1996 Cardoso ha riformato la band con altri musicisti e sono stati pubblicati dischi come "Terra" (2002), "Live Ritual" (2003, vecchie registrazioni dal vivo) e infine "Delirium" nel 2005. Ristampe di Musea e Belle Antique.

"Holocausto"

  Tasavallan Presidentti   - Esponenti del prog-rock finlandese, i Tasavallan Presidentti (cioè "Presidente della Repubblica") nascono nel 1969 e lo stesso anno firmano il primo album omonimo per la Love Records. Il quintetto ha i suoi punti di forza nel chitarrista Jukka Tolonen e nei fiati di Juhani Aaltonen, che sviluppano trame sonore tra rock, blues e jazz, come nella bella apertura di "Introduction / You'll Be Back for More". Non tutto funziona, ma i momenti migliori lasciano il segno: la melodica "I Love You Teddy Bear", con il flauto e la voce di Frank Robson in evidenza, ma soprattutto acidi rock-blues come "Obsolete Machine" e la più tirata "Driving Through", tra i picchi della sequenza. Altri episodi richiamano i migliori Traffic, da "Who's Free" a "Woman of the World", ma c'è pure spazio per raffinate escursioni strumentali, come "Wutu-Banale", ancora con la chitarra e il sax in primo piano. L'anno seguente il fiatista lascia il posto all'ottimo Pekka Pöyry, e dopo un disco insieme a Pekka Streng, la band realizza il più rifinito "Tasavallan Presidentti (II)" () nel 1971 per la EMI inglese. E' una raccolta che porta a maturazione i temi dell'esordio: Tolonen si destreggia anche alla chitarra acustica, ad esempio nel folk-rock di "Deep Thinker", insieme al flauto di Pöyry, eccellente anche al sax nell'attacco di "Introduction", affilato jazz-rock strumentale. Più pacata e atmosferica scorre invece "Sinking", con percussioni e flauto intorno alla voce e delicati arpeggi chitarristici. Spiccano "Weather Brightly", con l'organo caldo e il canto vibrante di Robson tra pause e riprese ad effetto, poi la bella coda di "Tell Me More", sincopata sul sax e la voce, mentre la chitarra "hendrixiana" di Tolonen si ascolta in "Struggling for Freedom". Il disco più rinomato dei finnici è il successivo "Lambertland" (1972), inciso col nuovo cantante Eero Raittinen. La sequenza mostra lo spostamento verso un raffinato jazz-rock sulle tracce di Canterbury: esemplare l'attacco di "Lounge", con chitarra, flauto, sax e sezione ritmica che danno il meglio in una trama eclettica e tecnicamente eccellente. Il malinconico tema della title-track, con l'organo di sfondo e l'arpeggio chitarristico sotto la voce, illustra un tipico mood scandinavo in lenta progressione. Umori più tesi e sperimentali caratterizzano invece "Bargain", col sax e la voce protagonisti, e così l'affilatissima fusion di "Celebration of the Saved Nine", mentre "Dance" si segnala per il flauto di Pöyry all'interno dei lunghi fraseggi acidi tra la chitarra solista e il basso di Måns Groundstroem. La fascinosa "Last Quarters", infine, abbina un flauto folk al tema vocale in uno schema modulato s'un giro ipnotico di basso e chitarra. Dopo la partecipazione al prestigioso Reading Festival, il gruppo fa uscire "Milky Way Moses" nel 1974. Trionfa una fusion ancora più sciolta nelle combinazioni tra fiati e chitarra (la title-track), con una spigliata ritmica quasi funky a tratti ("Caught From The Air") e il sax di Pöyry spesso protagonista, a parte la lunga e psichedelica "How To Start a Day", costruita sul crescendo di basso e piano elettrico insieme alla voce. Il nuovo bassista Heikki Virtanen è al centro della finale "Piece of Mind", come pure nel breve e ficcante strumentale "Jelly", che esalta l'amalgama tra i cinque. La band deflagra subito dopo, e Tolonen prosegue una carriera solista iniziata nel 1971. Brevi reunions hanno prodotto poi dischi live ("Still Struggling For Freedom", 2001) e infine un album di studio come "Six complete" nel 2006. Ristampe EMI, Love e Sonet (anche in vinile).

"Lambertland"

  Tea And Symphony   - L'underground inglese di fine anni Sessanta pullula di formazioni spesso inclassificabili, che si muovono tra psichedelia, folk, e sperimentazione pura. I Tea And Symphony, di Birmingham, lasciano il segno con due dischi pienamente immersi in questo clima creativo oggi impensabile. Il nucleo-base è costituito da Jeff Daw (flauto / chitarre / voce), James Langston (chitarra / voce / fiati) e Nigel Phillips (tastiere / voce / percussioni), con l'aggiunta del chitarrista Dave Clempson (poi con Bakerloo e Colosseum) e altri due percussionisti come Bob Lamb e Gus Dugdeon: è questo sestetto che incide il sorprendente album d'esordio, "An Asylum For the Musically Insane"(), pubblicato dalla Harvest nel 1969. Eloquente, fin dal titolo, il carattere trasgressivo e provocatorio del disco, un concentrato di umori folk e bizzarrie sonore assolutamente originali, prevalentemente acustiche. Spiccano nella ricca sequenza le singolari armonie vocali di "Armchair theatre", affiancate da flauti e chitarre acustiche, come pure in "Sometime" e meglio ancora in "Maybe my mind", con toni più acidi nel cantato e percussioni assortite. Gli altri episodi mostrano una vena più composita, a cominciare da "Terror in my soul", coi suoi chiaroscuri e il flauto sempre evocativo insieme ai complessi intrecci vocali tipici del gruppo. E' un acid-folk fantasioso e senza barriere, che regala emozioni tra improvvisazione e poesia sonora. Ad esempio "Winter", delicato ritratto di stagione, o "Travelling shoes", dal ritmo più serrato e un vivace duetto di flauto e armonica. Nell'atto finale di "Nothing will come to nothing" compaiono le tastiere e la chitarra elettrica, per un folk-jazz davvero sui generis che sigilla al meglio l'album. Il successivo, "Jo Sago" (1970), inciso col nuovo chitarrista Bob Wilson, è invece un concept molto ambizioso sulle vicende di un musicista caraibico che cerca fortuna a Birmingham. La musica resta camaleontica e interessante, sempre in bilico tra rock, jazz e folk, ma più strutturata e meno "naive". Nella lunga suite che intitola il disco la voce di Langstone si fa più aspra e vibrante ("Brother" ad esempio), le atmosfere strumentali più corpose ("Desperate oil") e quasi cameristiche ("Miniature"), anche se non mancano deliziosi motivi acustici, come "Africa paprika". Altri momenti si richiamano al primo disco, ma gli intermezzi parlati, da vera opera teatrale, appesantiscono a tratti la sequenza senza ritrovare la magia dell'esordio. La band si sfalda nel 1971, ma coi due dischi realizzati resta comunque uno dei fiori all'occhiello della musica alternativa inglese agli albori degli anni Settanta.

"An Asylum For the Musically Insane"

  I Teoremi   - Quartetto che nasce a Roma nel 1969 e si fa notare per una buona attivita live nei locali della capitale, i Teoremi esordiscono con il singolo "Sognare"/"Tutte le cose" (1971), realizzato con la voce solista di Tito Gallo, seguito dall'album omonimo che esce nel 1972 su etichetta Polaris. Con un nuovo cantante solista molto energico come Lord Enzo, nome d'arte del napoletano Vincenzo Massetti, e un dominio assoluto della chitarra elettrica, mancando anche le tastiere, il gruppo mostra nelle sette tracce una vena orientata verso il più tipico hard rock, un genere che in Italia non ha mai attecchito più di tanto, a favore del rock sinfonico di scuola inglese. A ben vedere, neppure i Teoremi, nonostante le evidenti qualità tecniche individuali e una discreta grinta che caratterizza i brani, riescono a proporre qualcosa di realmente originale nell'ambito di certe sonorità, ma detto questo il loro unico album non è affatto da buttare, tutt'altro. Gli amanti del rock più duro e sanguigno, infatti, potrebbero senz'altro apprezzare le vibranti combinazioni tra la chitarra solista di Mario Schilirò e il basso di Aldo Bellanova (poi nei Samadhi), veri protagonisti della sequenza. L'impasto sonoro risulta complessivamente di buon impatto: lo si nota già nell'iniziale "Impressione", caratterizzata da vivaci chiaroscuri, o anche in "Nuvola che copri il sole", episodi decisamente vigorosi e ben suonati, nei quali spicca la voce enfatica di Massetti, a tratti affiancato dal coro, come nella finale "A chi non sarà più", con la chitarra acustica in evidenza accanto a quella elettrica. Particolarmente vorticoso il ritmo dell'unico episodio strumentale, "Il dialogo d'un pazzo", che si distingue per i frequenti cambi di tempo e il poderoso lavoro del batterista Claudio Mastracci, a suo tempo membro de Il Punto. Dopo lo scioglimento della formazione, Mario Schilirò collabora con artisti di grande successo come Venditti e Zucchero, mentre il cantante Vincenzo Massetti è tuttora attivo come cantante in Tailandia. Varie le ristampe, in vinile e CD, spesso con bonus-tracks.

"I Teoremi"

  Terpandre   - Il nome è quello del poeta e musico greco Terpandro (VIII°-VII° secolo a.c.), e lascia intuire il mondo musicale di questa band francese di Lione. A fondarla nel 1974 sono Bernard Monerri (chitarra) e Jacques Pina (tastiere), che solo dopo qualche anno si assestano in una formazione a sei elementi (due tastiere, chitarra, basso, violino, batteria) e senza ancora un contratto registrano nel 1978 il loro unico album omonimo () al famoso Aquarius Studio di Ginevra. Fedele al background decisamente classico del tastierista Pina, che firma quasi tutto il materiale, l'album è una sequenza interamente strumentale di cinque episodi dalla scrittura complessa ed elegante. Come nell'iniziale "Le Temps", i larghi spazi delle tastiere e del violino (Patrick Tilleman) danno corpo a una dimensione sofisticata, increspata a tratti da qualche break ritmico con la chitarra solista di Monerri in primo piano. Predomina un colto sinfonismo imperniato sull'uso intensivo del mellotron e del pianoforte: ad esempio in "Anne-Michaele", e poi anche in "Conte en vert", episodi particolarmente morbidi e ricchi di preziosismi strumentali a volte un po' manierati. Più vivaci sono "Histoire d'un pecheur", con il synth di Michel Tardieu in bella combinazione con piano e chitarra e fraseggi dal ritmo serrato, e soprattutto l'epilogo della lunga "Carrousel". Qui finalmente la chitarra elettrica di Monerri sale al proscenio e guida le danze insieme al piano in stile jazz di Pina, finché, dopo una lunga parentesi classicheggiante, è il violino che traghetta il pezzo verso lidi fusion dal marcato accento ritmico. La chiusura della sequenza è affidata invece a una lenta e raffinata progressione di mellotron e synth, che fotografa lo stile più vero band. Un disco di buon livello, anche se uscito fuori tempo massimo: solo nel 1981 infatti, a gruppo già sciolto, verrà pubblicato privatamente, unica testimonianza del passaggio dei Terpandre nella scena prog transalpina. Nel periodo 1979-'80 sia Monerri che Tardieu si ritroveranno insieme nel gruppo Vortex. Ristampe a cura di Musea (CD e vinile), con l'aggiunta di due bonus-tracks dal vivo.

"Terpandre"

  Terreno Baldio   - Una delle migliori formazioni brasiliane in ambito prog-rock, Terreno Baldio prende corpo a San Paolo intorno al 1973. Punti di forza del quintetto che realizza nel 1976 l'album d'esordio omonimo () sono senza dubbio il cantante João Carlos Kurk e il tastierista Roberto Lazzarini, oltre al chitarrista Mozart Mello, ma a fare la differenza è proprio l'invidiabile compattezza di una scrittura musicale morbida, melodica e al tempo stesso ricca di sfumature sinfoniche. Anche se appare evidente l'influsso del rock barocco dei Gentle Giant, non c'è dubbio che la sequenza sprigioni un fascino tutto suo, sia per l'innata musicalità della lingua portoghese, sia per l'atmosfera suggerita dalle liriche. Il disco infatti recupera, almeno in parte, un precedente show teatrale del gruppo con al centro Aqueloo, un personaggio che solo nottetempo, in un campo deserto (questo significa Terreno Baldio) dà voce alle pulsioni più profonde e solitamente represse: all'epoca, va ricordato, in Brasile vigeva un regime militare. Dopo l'incipit evocativo di "Pássaro Azul", si entra nel vivo con "Loucuras de Amor": il brano si sviluppa s'un riff di chitarra e poi sulla voce trasognata di Kurk, incorniciata dalle tastiere di Lazzarini (piano e organo), creando un'atmosfera di grande suggestione. Elementi più ritmici, in un contesto strumentale quasi fusion, emergono invece in "Agua Que Corre", con il pianoforte protagonista, e poi in "A Volta", con echi di samba nelle percussioni, fino a "Despertar", scandito dalla chitarra solista di Mozart Mello e contrassegnato dalla duttile vocalità del cantante. La lunga "Este é o Lugar" è forse la composizione più tipicamente prog, con le tastiere al proscenio tra frequenti spezzature ritmiche, ma l'episodio più affascinante è senza dubbio "Grite", posto in chiusura: articolato a dovere sull'organo e il pianoforte, con l'ottimo apporto del bassista João Ascenção, il brano lascia emergere una toccante melodia enfatizzata dal canto malinconico di João Kurk, spesso raddoppiato nel refrain, in una drammatica successione di pause e riprese ad effetto. Molto interessante, e per certi versi sorprendente, anche il successivo album, "Além Das Lendas Brasileiras" (1977), realizzato col nuovo bassista Ayres Braga, che come indica il titolo si rifà a storie e leggende del Brasile profondo, e per questo sceglie una chiave musicale diversa. Rispetto all'esordio, il gruppo allarga la tavolozza espressiva, che diventa più colorata, intrisa di folk e influenze composite, dimostrando il versatile talento di Lazzarini e compagni. Accattivante l'iniziale "Caipora", con Kurk impegnato anche al flauto, ma tutti i pezzi sono ben congegnati intorno a una voce sempre protagonista: ad esempio "Primavera", o anche la briosa "Lobisomen", con Lazzarini che si destreggia da par suo al piano elettrico. "Curupira" è una sorta di jazz-rock etnico, nervoso e trascinante, mentre altrove la musica si fa quasi frenetica, con flauto e percussioni spesso in primo piano insieme alle chitarre di Mello: ad esempio "As Amazonas". La band paulista si disperde nel 1978, ma nel 1993 si riunisce per realizzare una versione in lingua inglese del primo disco. Ristampe in CD a cura di Rock Symphony.

"Terreno Baldio"

  Tetragon   - Originari di Osnabrück, nella Bassa Sassonia, i tedeschi Tetragon nascono sulle ceneri del gruppo Trikolon, un terzetto che già includeva il tastierista Hendrik Schaper e il bassista Rolf Rettberg, ispirati dalle riletture classiche in chiave rock dei Nice. Quell'esperienza frutta nel 1969 l'album autoprodotto "Cluster", che passa inosservato. Due anni dopo, la nuova sigla (dal greco "quadrangolo") prende atto che ai due fondatori si sono aggiunti il chitarrista Jürgen Jaehner e il batterista Joachim Luhrmann, originando il nuovo quartetto. Il risultato è l'album "Nature" (), inciso in una fattoria riadattata e pubblicato nell'Agosto del 1971 in circa 400 copie per l'etichetta Soma, creata ad hoc. Nonostante la registrazione tramite un Revox A77 a due piste, il risultato finale esalta la verve dei quattro, a partire da Shaper, un tastierista virtuoso che tra organo Hammond, pianoforte e clavicembalo è il protagonista della sequenza. Lo si nota nella lunga apertura di "Fugue", come dice il titolo basata sulle fughe d'organo di Bach inserite in una fitta rete di variazioni di grande impatto: oltre alle tastiere spicca il lavoro del basso creativo di Rettberg, e poi del chitarrista Jaehner, autore di trascinanti inserti tra rock e blues nella seconda parte, dopo un lungo assolo di batteria. C'è tecnica e affiatamento, cosa che rende fresca e appetibile la contaminazione tra rock e classica allora in voga. Se questo è il picco del disco, il resto è comunque pregevole. "A Short Story", ad esempio, con riprese dal celebre "West Side Story" di Leonard Bernstein, è una sorta di jam tra riff chitarristici e splendide combinazioni con basso e batteria in odore di fusion, prima che l'organo torni in cattedra. La caratura del gruppo si conferma in "Irgendwas": qui Schaper si cimenta sia al pianoforte che all'organo in un brano senza la batteria e dove brilla ancora la chitarra solista, ma con spunti di elegante classicismo anche sulla chitarra acustica. L'epilogo della title-track include le sole parti vocali in inglese a cura del tastierista: l'atmosfera, inizialmente scandita sul morbido fraseggio della chitarra sotto il canto, si accende poi in una lunga deriva jazz fitta di passaggi incandescenti, tra pause e riprese continue. Una degna chiusura per un album sorprendente, rimasto purtroppo senza seguito: il nuovo materiale proposto dal gruppo al famoso produttore Conny Plank non trova infatti riscontro e la band si disperde nel 1974. Il potenziale dei Tetragon è ben espresso nella lunga bonus-track "Doors in Between", registrata live e inserita nella ristampa a cura della Lion.

"Nature"

  Third Ear Band   - Psichedelia, un pizzico di folklore cosmopolita che guarda a Oriente e una chiave strumentale classicheggiante e acustica compongono la squisita ispirazione di questa pregevole band inglese. Formato nel 1967 nel cuore della scena più alternativa, il quartetto (violoncello, violino, oboe/flauto e percussioni), fa il suo esordio due anni dopo con "Alchemy"(1969), un disco che subito richiama l'attenzione del pubblico più sofisticato. L'utilizzo di una strumentazione acustica, senza parti vocali, favorisce otto episodi di sorprendente rigore espressivo: suggestioni esoteriche ("Egyptian book of the dead") e atmosfere arcane caratterizzano un'ispirazione del tutto originale nella scena inglese del tempo. Con il solo cambio di Ursula Smith che rileva al violoncello Mel Davis, la band replica con il successivo omonimo(1970). I fiati di Paul Minns e gli archi (la Smith e Richard Coff), insieme alle percussioni di Glen Sweeney sviluppano quattro lunghi brani strumentali dedicati ai quattro elementi. Davvero ammaliante e potente la progressione di "Earth", con oboe e percussioni in evidenza in un tema che sprigiona energie e atmosfere ancestrali. Ma non da meno sono l'iniziale "Air", immersa in spirali di vento e lamenti di violino e violoncello, e la vertigine magmatica di "Fire". La chiusura è affidata invece a "Water", più crepuscolare e malinconica nel suo incedere. E' un disco bellissimo e di grande respiro, aperto alle profonde suggestioni della natura. La prima fase di questa eccellente formazione si chiude con il seguente "Macbeth"(1972), colonna sonora dell'omonimo film di Roman Polansky. In quest'ultimo album suonano anche Simon House (ex High Tide e poi con gli Hawkwind) e Paul Buckmaster, che troverà il successo come arrangiatore. C'è infine da segnalare una riunione nei tardi Ottanta del gruppo (con Sweeney e Minns) che realizza nuovi dischi.

"Third Ear Band"

  Time   (Croazia) - Si tratta di una formazione croata, messa insieme a Zagabria nel Novembre 1971 dal già noto cantante Dado Topić (ex-Korni Grupa) con altri cinque elementi. Pubblicato nell'estate del 1972 dall'etichetta Jugoton, l'album omonimo (), interamente cantato in lingua madre, è considerato ancora oggi uno dei migliori manifesti rock provenienti dalla ex-Jugoslavia. Fin dall'iniziale "Istina mašina" (cioè "macchina della verità"), uno dei momenti più brillanti, colpisce la compatta tenuta di questo hard progressive dominato dalla possente voce di Topić e articolato sull'organo vivacissimo di Tihomir Pop Asanović, in combutta con la chitarra solista di Vedran Božić. In realtà, la band croata si destreggia bene anche in alcune ballate più atmosferiche: ad esempio "Pjesma no. 3", avvolgente blues ben interpretato dal cantante, o anche "Kralj alkohol", col piano elettrico e l'organo in evidenza sotto la voce camaleontica. Interessante "Hegedupa upa", un'eclettica jam aperta dalla chitarra acustica e poi sviluppata in corpose combinazioni di organo e chitarra, con il ficcante apporto del flauto di Branislav Živković, mentre la chiusura, affidata alla lunga "Za koji život treba da se rodim", è forse il gioiello della sequenza. Il canto malinconico e insieme vigoroso di Topič è l'ombelico di un torrido hard prog che procede tra pause e accelerazioni, con pregevoli inserti chitarristici e l'organo ribollente sempre in primo piano, soprattutto nella parte centrale. Davvero un gran disco, non replicato a dovere dai seguenti. In "Time II", infatti, pubblicato nel 1975 da un diverso organico, prevale un hard rock più ortodosso, intervallato da parentesi morbide senza grande fantasia. Lo stesso Topić sembra aver perso il suo mordente: ad esempio "Da li znas da te volim", che scorre placida e fin troppo monocorde sul mellotron, o anche il lento crescendo di "Divlje guske", dominato dal piano elettrico di Asanović e poi dalla chitarra. Meglio, tutto sommato, i pezzi più roccheggianti, ad esempio "Alfa Romeo GTA", dove il cantante recupera la sua energia, ma nel complesso si tratta di un disco deludente. L'atto finale è un album come "Zivot U Cizmama Sa Visokom Petom", realizzato in Germania nel 1976: è un concept sull'ascesa e il declino di una rock-star, molto ben prodotto e suonato, ma senza una precisa direzione musicale. Tra momenti pop intrisi di stilemi funky ("Superstar"), disarmanti esempi di rock puro ("Rock 'n' Roll u Beogradu") e lunghe ballate in stile blues, con qualche parentesi venata di jazz ("London, Decembra '75."), la sequenza non decolla mai davvero e fa rimpiangere la felice vena degli esordi. Il gruppo si disperde nel 1977 e Topić si dedica alla sua carriera solista. Varie le ristampe disponibili del primo disco.

"Time"

  Time   (UK) - Una volta esaurito il progetto Spontaneous Combustion, i due fratelli Gary e Tris Margetts ci riprovano qualche anno dopo con una formazione nuova chiamata Time, non potendo utilizzare la vecchia sigla per motivi legali: con loro, oltre al batterista Jode Leigh, ci sono il chitarrista e cantante Alec Johnson, e soprattutto il valido cantante Mike Udell. Supportato a questo punto dal noto produttore tedesco Conny Plank, il quintetto registra proprio nel suo studio in Germania l'album omonimo (), pubblicato nel 1975 per la londinese Buk Records: otto tracce largamente dominate dal gioco delle due chitarre, che nonostante tutto lasciano emergere raffinati influssi del prog dell'epoca, pur senza forzose oscurità e invece con ammirevole dinamismo di scrittura. Piena di breaks e riprese scorre la bella apertura di "Shady Lady", con la voce solista di Udell sulle tracce di Jon Anderson (Yes) che caratterizza quasi tutte le composizioni, spesso affiancato dal coro dei compagni: le chitarre di Gary Margetts e Johnson, più il basso pirotecnico di Tris Margetts creano un vivace impasto di grande presa, sempre mobilissimo, che si ripete in tutta la sequenza. A volte l'atmosfera si fa più rarefatta, come in "Turn Around", tra i vertici del disco, sviluppata sul vibrafono di Leigh prima di lasciare spazio al gioco vorticoso delle chitarre e del synth, s'una ficcante base ritmica e la voce sempre in grande evidenza. L'episodio più lungo dell'album è "Dragonfly", dominato da riff in serie delle chitarre e un grande lavoro congiunto di basso e batteria, con belle pause sulle voci, anche corali, e una successione tra pieni e vuoti che indubbiamente lascia il segno. C'è tecnica sopraffina e soprattutto notevole intensità nella musica dei Time. Lo conferma una traccia come "Yesterday, Today, Tomorrow", particolarmente serrata, mentre la breve "Liar" si fa notare per la brillante linea vocale e melodica, incastonata a dovere in uno schema rock molto efficace e mai banale. Vibrafono e synth si ascoltano ancora nell'epilogo di "Steal Away", tra sottigliezze chitarristiche e sincopi di batteria, con il basso ad effetto di Tris che si avvita in linee avventurose di buon effetto, come pure in "Violence", dalla scansione più torbida intorno agli acuti del canto solista. Non si può dire che il solo disco dei Time sia originale, considerato l'ovvio riferimento al flash-rock degli Yes, ma rimane un ascolto consigliato per il grande talento dei singoli e l'avvincente gioco di squadra. Dopo aver suonato in giro per l'Inghilterra e mezza Europa, il gruppo si disperse intorno al 1977. In seguito, Tris Margetts ha suonato proprio con la band di Greg Lake (primo produttore degli Spontaneous Combustion) nel periodo 1981-'83. Ristampe a cura di Belle Antique e Prog Temple, anche in vinile.

"Time"

"Turn Around"

  Titus Groan   - Tra i gruppi meno fortunati del prog britannico della prima ora, i Titus Groan hanno un rilievo tutto loro. Il nome è quello di un personaggio della letteratura gotica inglese, ma questo quartetto mostra un discreto brio strumentale nel solo album omonimo () realizzato per l'etichetta Dawn nel 1970. Il contributo più sostanzioso alle trame sonore della formazione è senz'altro quello dei fiati di Tony Priestland (flauto, sax, oboe), fin dall'attacco brillante di "It Wasn't For You", che apre le danze. In realtà, a connotare il suono della band è anche il basso spettacolare di John Lee, come si evince soprattutto dalla suite in quattro parti "Hall of Bright Carvings": è una composizione dinamica e spesso trascinante, percorsa da fratture e riprese continue, con le voci corali e un ruolo importante anche per l'oboe. In linea generale, la musica dei Titus Groan è sempre creativa, accattivante nelle sue molteplici sfumature strumentali. Per esempio è molto bella la malinconica "I Can't Change", dove la voce accorata di Stuart Cowell (tastiere e chitarra) balza in primo piano insieme al flauto eclettico di Priestland, in uno schema che resta sempre mobile e aperto. Qui, come altrove, il gruppo mostra una certa predisposizione a incrociare toni e influenze diverse, anche all'interno del medesimo brano, e proprio questo senso spiccato per la contaminazione rende la sequenza davvero intrigante, senza un attimo di noia. "It's All Up With Us", ad esempio, è una ballata di taglio quasi folk, giocata sulle armonie vocali e le chitarre, prima dell'ingresso del sax che alza decisamente la temperatura strumentale. Manca forse l'acuto di facile presa, ma la musica dei Titus Groan ha un tratto comunque gradevole, come conferma la chiusura di "Fuschia", stavolta un cadenzato pop-rock melodico, con chitarre, flauto e voci corali di sicuro effetto. Terminato il progetto nel 1971, sia Cowell che il batterista Jim Toomey restano attivi nella scena pop-rock inglese. Ristampe in CD di See For Miles e Breathless, con l'aggiunta di altri tre pezzi usciti come EP sempre nel '70.

"Titus Groan"

  Tonton Macoute   - Con il nome preso in prestito dalla polizia privata del dittatore haitiano Duvalier (misteri dell'onomastica prog!), questa eccellente formazione inglese, originaria di Newbury, esordiva nel 1971 con un disco rimasto poi senza seguito. I due fondatori, Nigel Reveler (batteria) e Paul French (voce e tastiere) giravano già dal 1968 l'Europa con altri musicisti, suonando prevalentemente covers, e realizzando quindi tre singoli col nome di Windmill tra il 1969 e il 1970. Una volta tornati in Inghilterra, e assunta la nuova sigla, riuscirono finalmente a realizzare il loro album omonimo () con la Neon. Il quartetto che lo incide (chitarra/basso, fiati, tastiere e batteria) sfoggia una vena davvero ispirata, all'insegna d'un accattivante jazz-rock per niente banale, quasi sempre caldo e indolente nel suo sviluppo, con il flauto di Dave Knowles spesso protagonista: specialmente nell'apertura elegante di "Just Like Stone" e quindi in "Flying South in Winter". Le vivaci parti vocali sono al centro di delicati fraseggi jazz intervallati da qualche inserto più roccheggiante, ad esempio in "Dreams". Splendide però, soprattutto, certe combinazioni tra i fiati e le tastiere di French nelle due parti di "Natural High", dove la band si mostra capace di uscire continuamente dallo schema per poi riannodare i fili con elegante maestria, sorretta da un'ottima sezione ritmica, cioè Chris Gavin al basso e il citato Reveler alla batteria. Il pezzo forte comunque sembra "Don't Make Me Cry", sinuosa cavalcata scandita inizialmente da sax e basso in serrata combinazione, con il vigoroso canto solista in evidenza, e poi variata a iosa fino al superbo colpo di coda di flauto e piano che ripetono in coppia lo stesso seducente motivo: grande. Purtroppo, però, il precoce fallimento dell'etichetta Neon manda in frantumi il futuro dei Tonton Macoute, così come avviene per gli Spring. Resta quindi un solo titolo a testimoniare le qualità indiscusse di questo gruppo inglese, ed è consigliabile a tutti gli amanti della buona musica. Ristampe a cura di Repertoire e Akarma, in CD e vinile.

"Tonton Macoute"

  Total Issue   - Formati a Caen (Normandia) proprio agli albori dei Settanta, i Total Issue sono una vera meteora del prog transalpino. Il primo documento discografico della band è il 45 giri "Hauteville / Les temps" (1970), che precede l'album omonimo, pubblicato nel 1971 su etichetta United Artists. La formazione francese è un quintetto incentrato soprattutto sulle chitarre di Georges Locatelli e Michel Libretti, oltre che sul flauto di Chris Hayward, in grado di sviluppare una musica intrigante, insaporita da una psichedelia non troppo cervellotica e da un pizzico di folk. La sequenza alterna episodi cantati (in francese e inglese) dal batterista Aldo Romano, come l'iniziale "Les Marins", costruita su chitarre acustiche e basso, a escursioni strumentali di maggiore spessore: l'esempio migliore è probabilmente "Rustique", aperto da effetti temporaleschi e articolato sul basso pulsante di Henri Texier e la chitarra elettrica, con il flauto che conferisce una nota evocativa all'insieme. Nei pezzi cantati la delicata linea melodica scorre sui binari di uno stile sospeso, contrassegnato quasi sempre da flauto, percussioni e chitarre: è il caso di "Dis-Mais-Dis", o di "Quite Place", con il motivo melodico che ricorda i Beatles più trasognati. In "Over the Shadow" si ascolta anche l'organo di Hayward di sfondo al canto, in un crescendo ipnotico ad effetto con le voci corali e una chitarra elettrica distorta. Il disco dei Total Issue, costantemente in bilico tra la psichedelia anni Sessanta e i nuovi fermenti sonori, compone un manifesto di musicalità spesso accattivante, anche se a tratti un poco acerba. Lo si nota nella finale "Resurrection", con la chitarra elettrica ancora protagonista, e poi nella lunga "Le Porte Ouverte": qui le parti cantate, le atmosfere acustiche dominate da un flauto sempre fantasioso e gli spunti strumentali più corposi, con la chitarra solista in primo piano, convivono in un impasto interessante, ma piuttosto frammentario. La band realizza un paio di singoli nel corso del 1972 e si scioglie l'anno seguente. Ristampa Flawed Gems con bonus-tracks.

"Total Issue"

  Trace   - Ecco un'altra band olandese, originaria dell'area di Utrecht, che si pone nella scia di certi esperimenti di contaminazione tra rock e classica. Non a caso il leader è quel Rick Van Der Linden, già tastierista e anima degli Ekseption, tra i primi e più irriducibili gruppi a praticare questi incroci. Con la medesima verve il tastierista chiama nel 1974 il batterista Pierre Van Der Linden (un cugino) appena uscito dai Focus e il bassista Jaap Van Eik per formare i Trace. Il disco d'esordio omonimo (1974) fissa subito i canoni dell'operazione: un brillante rock barocco imperniato sul parco-tastiere del leader, dall'amatissimo Hammond al mellotron e al pianoforte, passando per il synth, con l'attiva e vivacissima collaborazione di basso e batteria. Lo schema è ovviamente risaputo e perfino inflazionato, sull'esempio dei rinomati E.L.P., tuttavia non si può negare al terzetto olandese una certa capacità di rinfrescare il tutto con un buon affiatamento e, soprattutto, una tecnica eccellente che connota l'intera sequenza. Si va dai due tempi di "Gaillarde" (una ripresa dal Concerto Italiano di Bach), composizione solida e immaginifica, con l'intermezzo vivace di "Gare le corbeau", affidato al basso di Eik, fino a "The Death of Ace", che riadatta parti del 'Peer Gynt' di Grieg, con largo utilizzo di synth e pianoforte. Tra momenti di puro virtuosismo del tastierista, "The escape of the piper" ad esempio, e qualche brano con il moog in primo piano, come "A Memory", l'album scorre via piuttosto interessante. I dischi seguenti si pongono nella medesima scia. In particolare "Birds" (1975), che vede il nuovo batterista inglese Ian Mosley al posto di Pierre Van Der Linden, offre ancora buone cose: brillante soprattutto l'iniziale "Bourrée", con il trio in forma smagliante, mentre nella vivace "Opus 1065" interviene anche il violino elettrico di Darryl Way (Curved Air) che insieme alle tastiere del leader crea un rock barocco virtuoso quanto trascinante. L'estro di Van der Linden trionfa soprattutto nella lunga e variegata suite "King-Bird", dove si ascolta anche la voce del bassista Van Eik, ma che poco di nuovo aggiunge alla formula. L'ultimo album è "The White Ladies" (1976), accreditato a "Rick Van Der Linden and Trace", con una formazione stravolta che include una voce narrante e una sezione-fiati. Ambizioso rock sinfonico con citazioni dalle sonate di Beethoven, a volte pomposo, il disco ribadisce bene il concetto: musica di buona fattura, all'interno di un genere che però ha già dato il meglio. Scomparso nel 2006, il tastierista ha inciso anche molti dischi da solista.

"Trace"

  Tractor   - Questo duo inglese di Rochdale (Manchester) è una diretta filiazione della band The Way We Live, dove appunto suonavano insieme Jim Milne (chitarra e voce) e Steve Clayton (batteria): dopo l'unico disco realizzato nel 1971 ("A Candle for Judith") senza ottenere riscontri commerciali, il noto DJ e produttore John Peel convince Milne e Clayton a proseguire col nuovo nome Tractor. Poco dopo, per l'etichetta Dandelion fondata dallo stesso Peel i due incidono prima un EP con tre brani e quindi l'album omonimo () nel 1972. Nella vivace sequenza di otto episodi convivono psichedelia, hard rock e un pizzico di folk in una mistura sonora che mantiene sempre desta l'attenzione per la varietà di toni e anche per la qualità dei due musicisti. La chitarra elettrica, soprattutto, recita la parte del leone nei brani più corposi, a cominciare dall'incipit di "All Ends Up", un hard rock scandito dal ruggito chitarristico e dalla buona voce dello stesso Milne, ben coadiuvato dalle rullate poderose di Clayton, in una serie di pause e riprese del tema cariche di tensione. Nella scaletta c'è un tipico rock'n'roll come "Ravenscroft's 13 Bar Boogie", ma anche tracce sperimentali di chiara matrice psichedelica, ad esempio lo strumentale "Shubunkin", con la chitarra distorta e acida, o anche "Hope In Favour", con la voce filtrata ad arte e i poliritmi della batteria in un insieme molto efficace. Altre volte Milne suona la chitarra acustica nell'apertura del pezzo: è il caso della lunga "Little Girl In Yellow", che parte in sordina e poi si articola in un rock dalle sfumature oscure che deflagra spesso in torride scariche elettriche, mentre il basso fa da raccordo tra i diversi passaggi. Più melodico il rock di "Make the Journey", posto in chiusura del disco: canto e chitarra ritmica procedono lineari sostenuti a dovere da batteria e percussioni varie, finché la chitarra solista torna in cattedra con potenti e articolati riff in serie, prima di una lunga coda psichedelica fatta di lancinanti distorsioni, voci filtrate ed effetti di vario genere. Il disco dei Tractor tuttavia non sarebbe quello che è senza un paio di episodi più melodici in una bella chiave folk: in particolare di grande effetto è la breve "Watcher", costruita sull'arpeggio acustico e la voce ispirata di Milne, come pure "Everytime It Happens", che solo nel finale lascia emergere le note lunghe della chitarra elettrica accanto a quella acustica. Nonostante la buona accoglienza della critica, il duo ha poi vissuto alterne vicende, anche se sono usciti alcuni singoli, e solo nel 1991 è pubblicato l'album "Worst Enemies". Dal 2001 Clayton e Milne sono tornati ad esibirsi dal vivo, suonando spesso in celebri festivals come quelli di Glastonbury e Canterbury. Ristampe a cura di Ozit-Morpheus, in CD e vinile.

"Tractor"

  Trees   - Altra band collegata al filone del prog-folk inglese, i Trees si formano a Londra nel 1969 e realizzano due soli album ufficiali. Spesso avvicinati ai più noti Fairport Convention, si caratterizzano però per un'impronta psichedelica più forte, come si evince già nell'esordio di "The Garden of Jane Delawney", pubblicato dalla CBS nel 1970: nove tracce divise tra traditionals e composizioni originali, che portano spesso la firma del bassista Bias Boshell. Il fulcro dell'ispirazione sta nelle due chitarre di Barry Clarke (solista) e David Costa (soprattutto acustica), oltre che nella cristallina voce di Celia Humphris, decisiva come sempre in questo genere di formazioni. Tra gli originali spiccano la delicata title-track, con la cantante protagonista di un bel gioco di sovrapposizioni vocali, e poi "Road", cantata a due voci con Boshell e il robusto contrappunto della chitarra elettrica. Il meglio viene forse dai pezzi tradizionali. "Lady Margaret" ricorda davvero i Fairport, ma è comunque un gran pezzo, sviluppato su finissimi giochi chitarristici combinati con il basso di Boshell, finché l'elemento elettrico sale in cattedra, e lo stesso vale per "She Moved Thro' The Fair", dominata da una parte centrale molto psichedelica. Il rock si fa più acido in "The Great Silkie", mentre "Glasgerion" è un pezzo trascinante, con la chitarra dal riff psichedelico e il ritmo ondivago tra pause e riprese. Con il successivo album "On The Shore" (Gennaio 1971), la ricetta di fondo si conferma, ma una produzione più attenta, insieme a un maggiore affiatamento, portano la musica del quintetto s'un piano leggermente superiore all'esordio. Tra i dieci brani della raccolta, la metà esatta è costituita ancora una volta dalla ricca tradizione britannica: tra questi, "Polly On The Shore", dove la voce della Humphris è il cuore d'una bella e dosata progressione strumentale, con la chitarra di Clarke e il basso che preludono a un grandissimo finale con la batteria in evidenza insieme alla chitarra. Non è da meno "Streets of Derry", dove un riff elettrico incendiario convive con limpide parti vocali prima di una lunga jam trascinante, basata sul serrato lavoro di basso e batteria intorno alla chitarra solista: molto bello. Nella lunga "Sally Free And Easy", tra i cinque brani firmati dal gruppo, Boshell si sposta al pianoforte mentre il produttore Tony Cox suona il basso: qui la voce sale ancora più evocativa in un clima rarefatto che cresce via via d'intensità sul pianoforte, per placarsi di nuovo solo in coda. Tra gli altri, "Murdoch" va citato per le sue cadenze sostenute che sorreggono il canto solista, mentre "Fool", scritta insieme da Boshell e Costa, segue un ritmo più nervoso, frantumato ad arte dalla batteria di Unwin Brown, e si articola ancora sul pianoforte, tra le chitarre e la vocalità più "scura" di Celia. Il successo non arriva, e dopo lo scioglimento nel 1972, il più attivo nella musica rimane Bias Boshell, che tra l'altro suona a lungo nei celebri Moody Blues. Diverse le ristampe disponibili, anche in vinile.

"On The Shore"

  Trefle   - Una misteriosa formazione d'oltralpe di cui ben poco si sa, titolare di un solo e raro album autoprodotto. Si tratta di "Reflet" (), pubblicato nel 1978, e composto di otto tracce pienamente ascrivibili al prog sinfonico di scuola francese, sul modello di Ange e simili. Il quintetto sviluppa un suono rifinito e piuttosto equilibrato, basato sulle tastiere di Jean Paul Migliara (pianoforte e synth soprattutto) che firma gran parte dei pezzi insieme a Patrick Torrés (chitarra acustica), e parti vocali estese e variegate, segnate da un pathos espressivo in linea con la migliore tradizione del prog transalpino. Tra i momenti rock più incisivi si segnala il breve "Pourriture blafarde", con la chitarra elettrica di Dominique Darfin in primo piano, ma la musica privilegia toni lirici e introspettivi: un buon esempio è "Le piano", col testo parlato sul tappeto di chitarra acustica e pianoforte, col basso ovattato in appoggio e percussioni ben dosate. L'album vive di un'atmosfera soffusa e piena di echi garantita soprattutto dalle tastiere ("Espoir" ad esempio) con voci e chiaroscuri che illustrano storie legate all'infanzia, come si nota fin dall'iniziale "C'est passé", tra misurate sincopi rock, e ancora meglio in "Violence", con una voce accorata che cattura l'attenzione più delle tastiere evocative di Migliara. La brevità dei pezzi evita certe forzature strumentali, e permette di apprezzare meglio l'atmosfera peculiare piena di risonanze, con poche ma vibranti coloriture rock in un disegno sonoro che resta sempre molto compatto: si nota la preparazione tecnica del quintetto e la scrittura ricercata in tutti i brani. Bello l'attacco incalzante di "L'appel du temps", con la voce in crescendo insieme alla chitarra, prima di un'evoluzione sospesa su pianoforte e arpeggi di chitarra, con il prezioso apporto del basso di Jean-Yves Dauphin e la fisarmonica nel finale. Tra i momenti più intensi spicca proprio l'epilogo di "Factures", che supera i sei minuti: l'apertura sul synth e il piano prelude a una lenta progressione sulla batteria marziale (Joannes Kotchian) e il canto solista, presto affiancato dalla chitarra elettrica di Darfin, prima che una cesura riporti al proscenio voci corali e tastiere per un finale in dissolvenza. "Reflet" è sicuramente un buon album, consigliato ai seguaci di un certo prog francese più raffinato, e i Trefle, subito usciti di scena, meritavano maggior fortuna. Ristampa in CD a cura di Paisley Press.

"Reflet"

  Trettioåriga Kriget   - Formazione svedese (il nome significa "la guerra dei trent'anni") che si forma nei dintorni di Stoccolma nel 1970 e incide diversi album, tra i quali una certa fama hanno i primi due. Il quartetto si stabilizza con l'arrivo del cantante austriaco Robert Zima e quindi del chitarrista Christer Akerberg, e dopo una serie di demo realizza il primo album omonimo nel 1974. L'ossatura dei sei brani è costituita dalla dinamica chitarra solista di Akerberg in combutta con il bassista Stefan Fredin, ma molto spazio hanno pure le parti vocali in svedese di Zima, cantante piuttosto personale e a volte debordante. Quello dei Kriget è un progressive dalle tinte hard, di notevole impatto tecnico, grintoso e aggressivo quanto serve. Si segnalano l'apertura di "Kaleidoniska orogenesen", poi "Roster fran minus till plus", dove l'intesa basso-chitarra si fa scintillante, e compare il mellotron di sfondo come in altri momenti del disco. L'attacco sostenuto di "Mina Lojen" è un pezzo di bravura del chitarrista che semina micidiali riff in serie tra le lunghe strofe cantate di Zima, che in "Ur djupen" sfoggia un falsetto alla Ian Gillan. Più intrigante l'epilogo di "Handlingens skugga", con il lento crescendo marziale e parti vocali enfatiche che fanno da ponte alla chitarra solista. Un album discreto, che fa da preludio al secondo e più riuscito del gruppo, "Krigssång"(), vale a dire "canto di guerra", pubblicato all'inizio del 1976. Splendida l'apertura lenta e avvolgente della title-track, che si avvale di un Robert Zima più efficace del solito, ma in generale l'ispirazione sembra più morbida e sofisticata: "Jag och jag och jag" è addirittura un pacato gioiellino intimista, con la chitarra acustica in primo piano e belle armonie vocali, e anche "Metamorfoser" ci mostra un rock più versatile, che alterna aperture melodiche al vivace lavoro del chitarrista. Nel disco non mancano comunque esempi di rock più grintoso: soprattutto "Mitt mirakel", che pure dimostra un piglio sempre più maturo, permette ad Akerberg di largheggiare con la sua chitarra, che duetta poi magnificamente con il basso nello strumentale "Murar", episodio di acido funky-jazz-rock suonato alla grande. La lunghissima "Krigssång II" in chiusura sembra voler riassumere le qualità del gruppo: uno stile pirotecnico e dinamico, con lunghe parentesi cantate sottolineate dal mellotron nei momenti più intensi. Dopo questo piccolo capolavoro, la band ripiega su un pop-rock più leggero in dischi come "Hej Pa Er!" e "Kriget". Nel 2004 infine i Kriget escono dall'oblio per realizzare l'album "Elden av år". Info nel sito ufficiale. CD Mellotronen.

"Krigssång"

  Triade   - Nel 1973 questo gruppo, a lungo circondato dal mistero, realizza per l'etichetta Derby l'album "1998: La storia di Sabazio", e poi si scioglie. L'unica presenza certa per anni è stata quella di Agostino Nobile (basso/voce/chitarre), reduce dall'esperienza con i Noi Tre, ma oggi sappiamo che la band fu formata a Firenze da Vincenzo Coccimiglio (tastiere), e comprendeva anche il batterista Giorgio Sorano. Facile intuire che la musica di un trio così concepito sia molto vicina al modello di E.L.P. e simili. Nonostante il titolo faccia pensare ad un classico concept in linea con la moda dell'epoca, in realtà la suite intitolata a Sabazio, firmata da Coccimiglio, è interamente strumentale, priva di parti cantate. In ogni caso, è la parte migliore dell'album, con serrate combinazioni di organo e basso ("Il sogno" ad esempio), qualche effetto più cerebrale e buone parti di pianoforte che possono richiamare un certo classicismo alla Debussy: è il caso di un episodio come "Vita nuova". È, più in generale, una trama sonora compatta e virtuosistica, sostenuta da una ritmica pulsante, che si concede poi qualche apertura sinfonica, ma senza strafare. Tra i diversi momenti, "Il circo" è forse il brano più tipico di questo genere di formazioni triangolari, con l'organo sempre in cattedra in fraseggi di buona fattura: una discreta tecnica di base sorregge le trame strumentali, anche se il risultato complessivo a volte lascia trapelare una punta di freddezza. Poco riusciti invece, nonostante qualche idea non banale nelle liriche (come "Espressione"), i tre pezzi composti e cantati da Agostino Nobile nella seconda parte, per l'amalgama non sempre convincente con il tessuto musicale sviluppato sulla chitarra acustica e le tastiere. Il disco della Triade resta uno dei molti esempi di progressive italiano dimenticato, non particolarmente originale ma comunque degno di ascolto, in quanto organico ad un preciso indirizzo stilistico del prog settantiano. Sciolto quasi subito il sodalizio, Nobile e Coccimiglio (scomparso nel 2012) restano comunque a vario titolo nell'ambiente musicale. CD a cura di BTF/Vinyl Magic, ma esistono anche edizioni coreane e giapponesi.

"1998: La storia di Sabazio"

  Triana   - Importante gruppo spagnolo originario di Siviglia, i Triana sono un esempio tipico di contaminazione tra la tradizione flamenca e le istanze del moderno progressive, e in qualche modo capostipiti del cosiddetto "andalusian rock". Il loro brillante disco d'esordio, intitolato "El patio"(), è pubblicato nel 1975: i tre componenti (Juan José Palacios, Jesús de la Rosa e Eduardo Rodríguez) sono affiancati organicamente da un chitarrista e un bassista, e danno vita a sette brani che bene mostrano le loro qualità. In ogni episodio, a cominciare dall'attacco di "Abre la puerta", la strumentazione elettrica convive fluidamente con quella acustica (la chitarra flamenca di Rodríguez), con risultati di grande effetto. Se la vibrante voce solista del tastierista De La Rosa, che firma quasi in solitudine le musiche e i testi, esprime tutto il caldo lirismo iberico, la chitarra elettrica di Antonio Perez s'innesta con bella naturalezza all'interno del tema strumentale. A tratti questo connubio si sbilancia verso l'uno o l'altro dei due poli, ma in generale l'incontro è davvero suggestivo e lascia il segno: tra i momenti più felici della sequenza vanno citati soprattutto "Recuerdos de una noche", dove la melodia è sostenuta a dovere da una ritmica travolgente, con la chitarra solista ancora protagonista insieme all'organo, e poi una fantasia sentimentale come "Sé de un lugar". Ci sono anche ingenuità e qualche momento più acerbo, ma nel complesso il disco ha un fascino tutto speciale e rimane forse la prova migliore della band. Appena meno brillante, anche se più rifinito nella produzione, è il successivo "Hijos del agobio" (1977), che sembra fotografare il passaggio della Spagna dal regime franchista alla democrazia. I testi assumono perciò un valore generazionale e sociale più esplicito mentre le musiche, smussate le punte espressive dell'esordio, trovano un tono medio più calibrato, sempre comunque su livelli di eccellenza. Sono da segnalare la title-track in apertura, solenne e orgogliosa insieme, con belle parti di chitarra, e il rock più grintoso di "¡Ya esta bien!" e "Necesito", mentre Jesus de la Rosa si conferma ottimo interprete in "Sentimiento de amor". Le difficoltà commerciali portano poi i Triana verso una musica più popolare, per quanto ancora di ottima fattura, a cominciare dall'enorme successo di "Sombra y luz" (1979). La parabola della band andalusa s'interrompe però bruscamente dopo la morte accidentale del cantante nel 1983, vale a dire nel momento di maggior notorietà. Ristampe a cura della Fonomusic.

"El patio"

  Triangle   - Una formazione francese nata a Parigi nel 1967, e inizialmente composta da Gerard Fournier (basso), Jean-Pierre Prévotat (batteria) e il chitarrista Pierrot Fanen. Quando nel 1968 quest'ultimo abbandona per entrare negli Zoo, si avvicendano un paio di sostituti prima di Marius Lorenzini, che insieme al polistrumentista François Jeanneau (fiati e tastiere), stabilizza il quartetto. Dopo due singoli nel 1969, cioè "Listen People" e poi "Elégie À Gabrielle", vede la luce il primo album omonimo (), pubblicato nel 1970 dall'etichetta Pathé. E' una sequenza piuttosto brillante di sei tracce, che parte benissimo con "Peut-être demain", un rock ben cantato da Fournier, tra inserti brillanti di fiati e chitarra elettrica, che avrà un grande successo come singolo. Tra pieni e vuoti scorre invece la più raffinata "Left With My Sorrow", cantata in inglese con echi dei Procol Harum, protagonista il pianoforte di Jeanneau affiancato dalla chitarra solista di Lorenzini, e il flauto nel finale. Ampio e solenne è invece il tema di "Guerre et paix", vivacizzato però da breaks che esaltano la sezione ritmica e il flauto, prima di ripiegare sul tema cantato. Scandito dal piano è "Blow Your Cool", tra sapidi inserti fiatistici e una ritmica sempre accattivante, con l'uso di percussioni più variegate nel mezzo, mentre l'episodio più lungo è l'epilogo di "Cameron's Complaint", riferito a Cameron Watson, che firma i testi inglesi del disco: intorno alla voce, viene fuori qui l'anima più jazz dei Triangle, con basso e flauto sugli scudi insieme alla batteria di Prévotat e la chitarra a fare da raccordo. E' il disco migliore del gruppo. Trainato dal singolo "Viens avec nous" (1971), che in parte replica il successo di "Peut-être demain", nel 1972 esce il secondo album conosciuto come "2". Nove tracce più brevi e melodiche rispetto all'esordio, ma ben suonate, a cominciare dall'attacco di "J'ai vu", rock-song dal ritmo sostenuto con dinamiche spezzature che lasciano spazio alla chitarra solista. Nella stessa scia s'inscrive anche "Le retour", fino a "Le matin du premier jour", con la chitarra acustica e voci corali s'uno sfondo di synth. Tra i picchi della sequenza vanno citate però "Litanies", ancora con suggestive voci corali, tra il piano elettrico e il fine lavoro chitarristico di Lorenzini, e poi "Recreation", abilmente costruita sul pianoforte jazz di Jeanneau e sviluppata quindi sul sax e un fitto reticolo percussivo. E' indubbiamente un disco di equilibri più alterni, eppure il gruppo dimostra ancora il suo talento fino all'epilogo di "Pate grise". Lo stesso vale per il terzo e ultimo album, "Homonymie" (1973), registrato stavolta da un quintetto che schiera il nuovo cantante Denis Duhaze e il bassista René Devaux al posto di Fournier. E' una miscela in verità un po' ibrida tra pop orchestrale ("L'Incomprise"), vivaci spunti rock ("La voyante" o "Mama, tu ne sais pas") e qualche traccia più ambiziosa, come "La terre", di atmosfera evocativa sul canto solista, fino all'indiavolato folk-rock di "Éloge de la folie", col noto violinista jazz Stéphane Grappelli protagonista. In "Auroville" e "La dune-fée", con un bel solo di sax nel finale, si fa valere la vibrante chitarra solista di Lorenzini, ma anche se ha buoni momenti, nell'insieme il disco suona frammentario. Dopo il 45 giri del 1974 "Un ticket pour…", la band francese si scioglie. Solo i due primi album sono stati ristampati in CD e vinile.

"Triangle"

"Left With My Sorrow"

  Triode   - Dalle brume transalpine dei primi Settanta emerge questa band formata a Parigi nel 1970 e schierata a quattro (flauto, chitarra, basso e batteria) col suo unico album dato alle stampe nel 1971 e riedito in CD da Mellow Records nel 2000. Effettivamente "On n'a pas fini d'avoir tout vu" (1971), all'epoca pubblicato dall'etichetta Futura Records, ci si presenta come un tipico frutto d'epoca: sono nove tracce interamente strumentali, dominate in lungo e largo dal flauto elegante del leader Michel Edelin, che spaziano dalle sonorità di Canterbury alle più ovvie contaminazioni dei primi Jethro Tull. Rispetto al funambolico Ian Anderson, tuttavia, Edelin sceglie atmosfere ancora più sospese, a cavallo di jazz e blues. Eccellente l'apertura di "Magic Flower", divagazione di stampo barocco, mentre "Moulos Grimpos" si dipana ipnotica sulle cadenze d'un tipico blues, con la chitarra elettrica di Pierre Chérèze che guadagna spazio, pur senza mai strafare, anzi con ammirevole sobrietà. Accanto allo strumento principe del disco, va sottolineata comunque la buona presenza del bassista Pierre Yves Sorin, non di rado essenziale a definire il paesaggio sonoro, anche per l'assenza delle tastiere: è soprattutto il caso di "Blahsha", col ricco contributo delle percussioni, e quindi di "Ibiza Flight" (firmata proprio dal bassista), dove si assiste a un serrato duetto di basso e flauto di grande effetto, prima dell'incisivo inserto di una chitarra solista vagamente hendrixiana. Resta da segnalare, infine, la godibilissima cover della beatlesiana "Come Together", con il flauto che ovviamente ricopre in questo caso il ruolo della voce solista, affiancato a dovere dal basso. Tirando le somme, se a un primo ascolto l'album dei Triode somiglia a un raffinato esercizio di stile, e in parte lo è, non mancano in realtà momenti più personali di buona fattura, tutti da apprezzare, anche se l'impostazione di fondo oggi può suonare fatalmente datata. Sciolto infine il gruppo nel 1972, sia Edelin che il chitarrista Pierre Chérèze restano attivi come solisti a partire dagli anni Ottanta e oltre. Del disco esistono anche ristampe in vinile, a cura di SouffleContinu Records e di Luna Nera.

"On n'a pas fini d'avoir tout vu"

  The Trip   - All'inizio i Trip sono praticamente un gruppo inglese, e per qualche tempo annoverano in organico anche Ritchie Blackmore, il futuro Deep Purple. La svolta si ha nel 1966, quando il cantante Riki Maiocchi (ex Camaleonti) recluta la band in Inghilterra perché lo accompagni nei suoi concerti italiani. Dopo qualche mese, Maiocchi e il gruppo si separano: Blackmore ritorna in patria, e in formazione, accanto a Wegg Andersen e Billy Gray, entrano il batterista torinese Pino Sinnone e il savonese Joe Vescovi con le sue tastiere. È proprio questo nuovo quartetto a realizzare il primo album omonimo (1970). Tra sonorità ancora parzialmente legate al beat ("Una pietra colorata"), i testi in lingua inglese cantati dal bassista Wegg Andersen e spunti di chitarra elettrica (Billy Gray), fanno però capolino interessanti parti di tastiere, in brani come "Incubi" e "Riflessioni". Molto attivi nel circuito dei Pop Festival, dal primo Caracalla a Viareggio, i Trip sono pure interpreti del bizzarro film "Terzo Canale - Avventura a Montecarlo", diretto da Giulio Paradisi, e quindi riscuotono consensi con il secondo album, "Caronte" (1971). È un vivace esempio di Dark Progressive, grazie al convincente equilibrio tra il parco tastiere, con l'organo in primo piano, e una chitarra elettrica dai toni piuttosto hard. Tra i brani spiccano "L'ultima ora", lenta e avvolgente con l'appendice/omaggio "Ode a Jimi Hendrix", e poi il ritmo ossessivo dalle tinte gotiche di "Two Brothers", mentre le due parti di "Caronte" mostrano le tastiere di Vescovi in grande spolvero. Un album che conferma le qualità del gruppo, anche se le cose evolvono rapidamente. Infatti, una volta perduti sia Gray che Sinnone, la coppia Vescovi-Andersen registra "Atlantide" (1972) con il nuovo batterista Furio Chirico e il gruppo cambia direzione. Il disco, dedicato al famoso continente scomparso, rimane uno dei più significativi esempi del progressive sinfonico italiano: le morbide e romantiche tastiere evocative di Vescovi, insieme al basso dinamico e alla bella voce di Andersen, senza trascurare il prezioso contributo ritmico del grande Chirico, un batterista tanto potente quanto originale, regalano brani eccellenti. Il suggestivo canto di sirene della title-track iniziale, ad esempio, o anche le più serrate atmosfere di "Evoluzione" e "Ora X", con basso e batteria protagonisti, fino alla splendida "Analisi", con l'organo solenne e il canto in primo piano insieme alla batteria marziale. Il cerchio di questo memorabile concept si chiude con un lungo assolo di batteria di Chirico che preannuncia la catastrofe finale, nella sequenza "Distruzione"/"Il vuoto". L'album seguente è "Time of Change" (1973), con caratteristiche differenti rispetto al precedente e una vena più altalenante. La lunga e ambiziosa "Rhapsodia" condensa molte influenze prog con buona verve, ma forse in maniera un poco prolissa. Vescovi si destreggia spesso al pianoforte, con evidenti richiami a Keith Emerson e ad un certo jazz ("Formula Nova" e la finale "Ad Libitum"), mentre Chirico è sempre impeccabile, e la voce di Andersen forse più duttile che in passato. Da segnalare un brano ad effetto come "Corale", con un maestoso organo a canne che accompagna il canto solista. Segue lo scioglimento, ma la breve e intensa storia dei Trip avrà un'appendice effimera nel periodo 2010-2011, con alcuni fortunati concerti in Italia e in Giappone. La scomparsa di Andersen e poi di Vescovi, fa calare definitivamente il sipario sulla band.

"Atlantide"

  Triumvirat   - Band tedesca formata a Colonia nel 1969 su iniziativa del virtuoso tastierista Jürgen Fritz, diplomato al conservatorio. Dopo l'esordio di "Mediterranean Tales" (1972), il trio aggiusta il tiro e col nuovo bassista Helmut Köllen, oltre al batterista Hans Bathelt, dopo un lungo periodo di prove pubblica finalmente "Illusions On a Double Dimple" nel marzo 1974. Nelle due lunghe suite che compongono il disco, l'estro del leader Fritz si pone dichiaratamente nella scia di Keith Emerson: molto organo Hammond, vivaci spunti di moog e pianoforte, in una trama neppure troppo pesante, s'una base ritmica scorrevole, senza cadute di tono ma con pochi episodi memorabili. Nella seconda suite ("Mister Ten Per Cent"), un satirico ritratto dell'ambiente discografico, non manca neppure l'apporto dell'orchestra (Cologne Opera House) e di una sezione-fiati: qualche spunto divertente, sottolineato da cori, e i disinvolti preziosismi sinfonici del tastierista firmano un disco abbastanza gradevole. La formula funziona, e i Triumvirat diventano popolari anche negli States, dove il loro tour riceve ottime accoglienze. Il passo successivo del gruppo è il concept "Spartacus" (1975), dedicato al celebre schiavo che guidò la rivolta contro Roma. Nonostante l'argomento ponderoso la struttura non cambia più di tanto: è un progressive agile e senza troppe complicazioni, che le tastiere di Fritz guidano in scioltezza, in contrasto con titoli roboanti come "The Capital of the Power" o "The Deadly Dream of Freedom", che hanno invece toni pittorico-descrittivi piuttosto leggeri. Da sottolineare solo qualche accelerazione ritmica, e una patina di enfasi esotica in brani quali "The Hazy Shades of Dawn" e poi "The Burning Sword of Capua", oltre a "The March to the Eternal City", ma niente di più, con le parti vocali del bassista sullo stesso tenore. Dopo il momento di grande popolarità, comunque, la fortuna del trio declina in fretta: escono dischi come "Old Loves Die Hard" (1976) e "Pompeii" (1977), quest'ultimo firmato come "New Triumvirat", fino ai più tardi "A la Carte" (1979) e "Russian Roulette" (1980), che non riescono più a ripetere i risultati precedenti. Molteplici le ristampe oggi in circolazione, in CD e vinile: Harvest, EMI, Electrola.

"Spartacus"

  Troya   - Un'altra formazione tedesca, nata nel 1972 a Werne an der Lippe (regione della Ruhr) con il nome Drastic, poi modificato, che vanta un solo album all'attivo. Si tratta di "Point of Eruption", realizzato in proprio nel 1976 in sole duecento copie: proprio l'estrema rarità del vinile originale ne ha fatto negli anni una piccola leggenda, e un oggetto molto ambito dai collezionisti. A parte questo, è un tardo esempio di prog sinfonico prodotto con relativa penuria di mezzi, ma ancora di gradevole ascolto per gli amanti del genere. Nelle sei tracce dell'album, il quartetto si destreggia infatti con gusto tra spunti melodici, discrete combinazioni di organo e chitarra, e un'attitudine alle sfumature classico-romantiche messe in luce anche da voci delicate e un po' naif. Lo si nota già nell'apertura di "She", tra i momenti più rappresentativi del gruppo, dove il canto trasognato è ben inserito sul morbido sfondo delle tastiere di Peter Savelsberg, con puntuali accelerazioni della batteria a sostenere gli spunti solistici del chitarrista Elmar Wegmann. Più tumultuoso e frantumato il successivo "Battle Rock", vero tour de force di organo e batteria, mentre "Festival", con un testo dedicato ai raduni "hippie" del decennio, ricorda da vicino certe atmosfere dei Genesis, come pure lo stile chitarristico della conclusiva "Choke", altro episodio strumentale che procede tra pause e ripartenze sui ritmi marziali del batterista Klaus Pannewig. Molto più classico il tema di "Sinclair", dove organo, pianoforte e chitarra solista dipingono un paesaggio elegante, increspato poi dalle consuete fratture interne. In ultima sintesi, "Point of Eruption" dei Troya, pur conservando una certa impronta amatoriale, e con qualche ingenuità di fondo, rimane un titolo abbastanza appetibile per i cultori del prog minore: offre una ricetta di base piuttosto semplice, non troppo complessa né particolarmente originale, ma nel complesso sicuramente godibile. Ristampa in cd a cura di Garden Of Delights.

"Point of Eruption"

  Tudor Lodge   - Forse questa band ha toccato uno dei picchi assoluti nel campo del progressive-folk inglese. L'unico disco dei Tudor Lodge è un semplice omonimo () uscito su Vertigo (1971) che non ha molto a che fare, in effetti, col filone del folk-rock elettrico portato in auge da Fairport Convention e simili: il trio titolare, cioè Lyndon Green e John Stannard (chitarre/voce) più Ann Steuart (voce/chitarra/piano/flauto) sembra infatti a proprio agio dentro melodie e atmosfere prettamente acustiche, agresti e malinconiche, senza concedere molto al gusto della contaminazione. Il fulcro è sicuramente costituito dal timbro limpido e soave di Ann Steuart, una voce che cattura l'attenzione sin dalle prime battute di "It all comes back to me", e soprattutto nella splendida "Two steps back", breve ma compiuto inno all'armonia perduta che si libra purissimo sulle note di pianoforte, flauto e chitarre. Al disco, tutto basato su composizioni originali del trio (a parte la finale "Kew garden" di McTell), portano il loro contributo molti ospiti di prestigio (come Danny Thompson, il bassista dei Pentangle), ma l'effetto non è mai quello di enfatizzare il paesaggio sonoro, bensì di sottolineare al meglio, in arrangiamenti perfettamente calibrati, la delicata ispirazione dei Tudor Lodge. Così, a parte alcuni bei passaggi di archi e fiati (clarinetto, flauto, oboe, corno) i dodici brani s'incentrano tutti sul gioco delle armonie vocali, a tratti corali (come in "Nobody's listening"), assecondati dal discreto tappeto acustico di archi e strumenti a corda ("Forest") o dal timbro arioso di corno e flauto ("I see a man"). Uniche eccezioni, relative, sono l'attacco misterioso di "Willow tree", e la più ritmica "The lady's changing home", tra i pochi momenti scanditi dalla batteria e con un solo di chitarra elettrica. L'unico strumentale è invece "Madeline", virtuoso saggio alla chitarra acustica firmato da Green. Si tratta, in conclusione, di un vero e mirabile manifesto di tutta la grazia cristallina che il folk britannico ha saputo esprimere in una stagione forse irripetibile.

"Tudor Lodge"

  Twenty Sixty Six and Then   - Altra formazione tedesca per anni dimenticata, i Twenty Sixty Six and Then nascono a Mannheim nel 1971. Il nome viene dal cantante inglese Geff Harrison che cita la frase idiomatica "1066 e poi": è l'anno della celebre battaglia di Hasting, aumentata però di un millennio. Schierata a sestetto, con i due tastieristi Veit Marvos e Steve Robinson, la band riesce a realizzare il suo primo album nel 1972 per la United Artists: si tratta di "Reflections On The Future" (). La potenza di fuoco del gruppo è davvero notevole, come si nota dall'attacco corposo di "At My Home", con l'organo bollente e la chitarra solista di Gagey Mrozeck in evidenza intorno al vigoroso canto solista di Harrison, decisivo nella sequenza. Nel brano si segnalano anche i trilli del flauto, ma a colpire è l'impasto vibrante di questo heavy prog dal ritmo martellante, ben sostenuto da basso e batteria, che è la cifra di tutto il disco. La lunghissima title-track amplifica ulteriormente l'impatto sonoro del sestetto, con il basso di Dieter Bauer protagonista in un gioco mordente di pause e riprese ed una voce più duttile nel cuore di un rock a tratti lancinante, a tratti invece rarefatto, con inserti di vibrafono e moog. Di sicuro, la musica firmata Twenty Sixty Six and Then non annoia mai, e se qua e là non mancano stilemi del rock britannico dell'epoca, il suono rimane sempre caldo e pulsante, aperto agli spunti dei solisti nei pezzi più estesi. "Butterking" è sviluppato tra pieni e vuoti, con inopinati inserti di pianoforte e interferenze varie, mentre la voce di Harrison si destreggia a dovere nel saliscendi vorticoso del pezzo: davvero grande qui il lavoro del batterista Konstantin Bommarius. Nella lunga "Autumn", dopo l'apertura quasi sinfonica, chitarra, organo e batteria riprendono a tirare forsennati, prima che il canto solista torni in primo piano: sempre notevole l'intreccio tra la chitarra e le tastiere, col rombo inesausto del basso e una serie di accelerazioni che preludono a un malinconico finale. La conclusiva "How Would You Feel" è invece una romantica ballata che richiama i migliori Procol Harum, con pianoforte e voce sugli scudi, ma della traccia esiste anche una versione live in studio più lunga intitolata "The Way I Feel Today", ricca di barocchismi e variazioni col flauto protagonista. In ogni caso, il disco all'epoca passa inosservato e questo decreta la fine precoce di una band che meritava miglior sorte. Tra i membri, Harrison e Mrozeck entrano nel gruppo Kin Ping Meh, mentre Marvos fonda la band Emergency, e Bommarius suona con gli Abacus. Varie le ristampe, anche in vinile, con bonus-tracks e versioni alternative dei brani.

"Reflections On the Future"

"At My Home"