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Machiavel Madison Dyke Madrugada Magna Carta Malachi Mandalaband Alain Markusfeld

Marsupilami John Martyn Matching Mole Materia Gris Maxophone May Blitz Mémoriance Messaggio 73 Metabolisme

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  Machiavel   - Sicuramente la band belga di maggior successo, fondata a Bruxelles nel 1974 da Marc Ysaye (voce e percussioni) e Roland De Greef (basso). Schierato a quattro, il gruppo esordisce con un disco omonimo realizzato nel 1976: sei tracce che parlano un linguaggio romantico e sinfonico, dominato dalle tastiere di Albert Letecheur e dalla voce di Ysaye, non sempre all'altezza. L'iniziale "Johan's Brother Told Me" e poi "Cheerlesness" scorrono placidi e un po' prevedibili, mentre "When Johan Died, Sirens were Singing" offre almeno un rock più dinamico, con pianoforte e chitarra in evidenza. Il chitarrista Jack Roskam domina il breve strumentale acustico "I am", mentre la conclusiva "Leave it Where it Can Stay" recupera una dimensione morbida con synth e voce in primo piano. E' un album delicato, ma ancora irrisolto. La situazione migliora sensibilmente con il successivo "Jester" (1977), inciso da un rinnovato quintetto: entrano infatti il cantante e fiatista Mario Guccio e il nuovo chitarrista Jean-Paul Devaux, che garantiscono alla band ben altro spessore. Lo si vede fin dall'apertura di "Wisdom": Guccio è sicuramente un vocalist più grintoso e convincente di Ysaye, ma anche la sezione ritmica affianca meglio le tastiere, come in "Sparkling Jaw", tra vigorosi cambi di tempo guidati dal piano elettrico e il supporto della chitarra di Devaux. Brillante anche la title-track, con istrioniche parti vocali al centro d'un rock sincopato e nervoso che ricorda molto i Genesis. Come dimostra il morbido episodio di "Moments", con mellotron, flauto e chitarra acustica protagonisti, il modello è quello, con massicce iniezioni di synth aggiunte: ad esempio in "Mr. Street Fair", tra i momenti migliori insieme al lungo epilogo di "Rock, Sea and Tree", dal finale travolgente. Il gruppo realizza quindi "Mechanical Moonbeams" nel 1978. Nei sette episodi il pendolo oscilla vistosamente tra morbide ballate acustiche ("Mary") e trascinanti rock'n'roll melodici ("Summon Up Your Strenght"), con l'infuocata chitarra di Delvaux in evidenza. Tra i due estremi stanno gli episodi migliori, come la romantica "Rope Dancer", di grande effetto, o la vivace apertura di "Beyond the Silence", che nelle voci richiama i Queen. A volte i due registri si sovrappongono senza fondersi, ad esempio in "After the Crop", mentre più efficaci sono "Rebirth" e la progressione di "The Fifth Season", ancora nel solco di Peter Gabriel e compagni. E' comunque l'ultimo capitolo prog dei Machiavel. Dal successivo "Urban Games" (1979), il quintetto sterza verso un pop-rock più eclettico con influenze reggae ("Over the Hill"), ma anche dance ("Dancing Heroes") e sussulti di puro rock and roll ("I'm Not a Loser"), conservando un grosso seguito in patria. Riformata negli anni Novanta dopo una lunga pausa, la band è ancora attiva: informazioni nel sito ufficiale.

"Jester"

  Madison Dyke   - Gruppo tedesco di Hannover titolare di un solo album pubblicato nel 1977, "Zeitmaschine"(). Nonostante il titolo in lingua tedesca (vuol dire "la macchina del tempo"), i testi dei quattro brani dell'album sono cantati in inglese. I Madison Dyke, come altre band germaniche dei secondi Settanta, riprendono il progressive britannico della prima ora, in questo caso soprattutto Pink Floyd e Genesis, ma con una certa personalità che li rende interessanti. Nonostante i due chitarristi schierati dal quintetto, le tastiere e soprattutto il mellotron fanno da sfondo onnipresente alla musica proposta. In "First step", posto in apertura, si fa notare anche il flauto del cantante Burkhard Rittler all'interno d'una composizione che incorpora robusti riff di chitarra e le aperture tastieristiche di Jurgen Baumann. Davvero incantevole è la breve parentesi di "Cooking time of an egg", caratterizzata dal flauto e dalle chitarre acustiche, mentre i restanti due episodi del disco focalizzano al meglio l'eclettica vena strumentale della band. Introdotto dalle note del flauto, "Next conceptions" vede salire al proscenio la chitarra solista, con lunghe divagazioni all'interno d'uno schema rock di buona fattura, ben articolato sullo sfondo liquido delle tastiere. Vivace anche il gioco delle armonie vocali, ma sicuramente non all'altezza della musica. In coda la lunga title-track, di oltre sedici minuti, compendia estesamente le qualità dei Madison Dyke: è una sorta di lunga suite ancora con le due chitarre a scandire il tema dominante con discreta fantasia, con frequenti cambi di tempo su flauto e pianoforte, mentre il mellotron crea improvvise isole di trasognato raccoglimento, e il finale lascia emergere sonorità di taglio sinfonico. Il disco ebbe una buona accoglienza in patria e vendite incoraggianti, ma la band si sciolse alla fine del decennio, nonostante un'intensa attività live. La ristampa in CD della Garden Of Delights include anche come bonus-tracks i due pezzi di un 45 giri realizzato nel 1975.

"Zeitmaschine"

  Madrugada   - Questo classico trio (basso/tastiere/batteria) si forma a Bergamo nei primissimi anni Settanta e ottiene nel 1973 un contratto con la Philips, grazie alla collaborazione di Mauro Paoluzzi (Nuovi Angeli) in veste di produttore. Il primo disco è un omonimo pubblicato nel 1974, che non rende piena giustizia alle potenzialità del gruppo lombardo. La prima parte, infatti, presenta canzoni di buona fattura, con testi interessanti scritti da Roberto Vecchioni, come "Uomo blu", ma poco sviluppate dal lato strumentale: si distinguono il piano elettrico vagamente jazz di Gianfranco Pinto in "Vieni nella strada", e la melodia rarefatta di "Camminar". Sicuramente meglio, comunque, il jazz-rock di episodi come "D.M.T." e soprattutto della lunga "Mandrax", dove le tastiere, col dinamico apporto di Alessandro Zanelli (basso) e Pietro Rapelli (batteria), mostrano un certo feeling per sonorità contaminate, tra space-rock e raffinato jazz atmosferico. Riuscito solo in parte, il disco passa inosservato, e il trio si ripresenta solo tre anni più tardi con "Incastro" (1977), un album decisamente più convincente, registrato insieme ad ospiti quali Lucio Fabbri e il sassofonista Gianluigi Trovesi tra gli altri. È una raccolta di spunti piuttosto eterogenea, ma indubbiamente il tasso prog del disco è molto più alto, improntato a una musicalità trasversale che abbraccia fusion, pop-rock melodico, folk e avanguardia. L'apertura di "Romanzen" è una lunga cavalcata attraverso un paesaggio evocativo e cangiante, cullata dal flauto (Gianni Bertocchi) e dal morbido tappeto di basso e tastiere, con un fitto lavoro percussivo di sapore etnico-tribale nel finale. "Aragon" è invece un incisivo jazz-rock cadenzato da sax, piano elettrico e chitarra elettrica (Luciano Ninzatti), col pulsare di basso e batteria a fare da collante tra le ariose sonorità elettroniche. Anche la coda di "Hobbit" è in area jazz, ma con l'aggiunta di effetti speciali e pause nelle quali spicca ancora il sax di Trovesi. Davvero molto bella è poi la parentesi melodica di "È triste il vento", brano già nel repertorio di un altro storico gruppo bergamasco, i Perdio, con un testo di spessore ed una grande performance di Lucio Fabbri al violino, affiancato dall'organo di Pinto. Se il breve "Noter de Berghem" riprende un canto dialettale in versione a cappella, la mordente "Katmandu" satireggia la moda dei viaggi spirituali verso Oriente, allora di gran moda, che somigliano ad una fuga dalla realtà. Un disco per molti versi pregevole, insomma, che non porta però il successo sperato, perché il mercato sta cambiando rapidamente come i gusti del pubblico. La band si scioglie e Gianfranco Pinto, dopo varie esperienze artistiche, partecipa proprio ad una nuova edizione dei Perdio che realizzano l'album "A Robert" nel 1998. Ristampe in CD a cura di AMS/BTF e Universal.

"Incastro"

"È triste il vento"

  Magna Carta   - E' un'altra formazione inglese che si colloca a cavallo di folk e progressive, con un successo piuttosto altalenante. Il gruppo, che ricorda nel nome l'atto fondativo della costituzione inglese (1215), è fondato a Londra nel 1969 da Chris Simpson (chitarra, voce) e Glen Stuart (voce, harmonium, percussioni) e fa il suo esordio nel 1969 con un album omonimo (riedito anche come "Times of Change") tipicamente folk, senza molte concessioni al rock. Con il secondo, "Seasons"(1970), inciso negli States, e con l'organico allargato al poliedrico Davey Johnstone (chitarra, mandolino, banjo e voce), i Magna Carta mostrano un'ispirazione più eclettica. Tuttavia la dimensione rimane principalmente acustica, specie nella lunga suite iniziale che dà il titolo al disco: nove episodi cesellati a dovere, con liriche allegoriche sul ciclo della vita umana scandita dalle stagioni, e un predominio assoluto degli strumenti a corda e di voci delicate, come quella solista di Stuart, spesso doppiata dai compagni. Qualche soluzione più ritmica, a parte la bellissima "Elisabethan", si ascolta nei brani della seconda parte, come "Ring of Stones", con Rick Wakeman ospite all'organo, o la più spensierata "Give Me No Goodbye". Chiude la scaletta un hit come "Airport Song", davvero molto vicina a certe cose di Simon & Garfunkel. Nel disco che segue, "Songs From Wasties Orchard"(1971), siamo ancora tra folk-rock di ascendenza americana e melodia accattivante, come dimostra l'attacco di "Time For the Leaving". Quanto al resto, se "Sponge" è un trascinante episodio prettamente folk, "The Bridge at Knaresborough Town" è dedicata da Simpson al nativo Yorkshire, e mescola curiosi echi di sitar alle chitarre. A dirla tutta, un paio di escursioni in stile smaccatamente country scalfiscono un poco la compattezza del disco, al quale Wakeman collabora ancora in tre pezzi, ad esempio in "White Snow Dove". Dopo il live "In concert" (1972) e il successivo "Lord of Ages", pubblicato nel 1973, il gruppo britannico subisce la defezione di Glen Stuart, che incrina un delicato equilibrio. In ogni modo, sia pure tra avvicendamenti e qualche pausa, la sigla è tenuta ancora viva da Chris Simpson insieme alla sua nuova compagna Linda Taylor, a partire dal 1983. Nuovi dischi, in studio e dal vivo, escono così negli anni Ottanta e anche oltre, anche se piuttosto lontani dai fasti degli anni migliori. Varie le ristampe in CD oggi disponibili.

"Songs From Wasties Orchard"

  Malachi   - Dal fitto sottobosco del prog-rock inglese emerge anche questa formazione intitolata al profeta Malachia, quasi mai ricordata nelle cronache musicali. In effetti, poco si sa dei componenti, a parte il tastierista e cantante Barry Kirsch, nato nel 1950 in Belgio e in precedenza leader del gruppo The Julian Kirsch, responsabile nel 1969 di un isolato 45 giri. In quell'effimero progetto suonava pure il batterista Paul Pinder, anch'egli coinvolto nel progetto dei Malachi. Il quartetto, che schiera ben due percussionisti e fa a meno della chitarra, ha il suo momento nel 1971, quando insieme a due 45 giri è registrato in Belgio l'album omonimo, publicato solo in Italia per la Columbia-Emi, mentre l'anno seguente il disco è pubblicato in Belgio col diverso titolo "Return of a Stranger". Questa curiosa storia discografica, ha reso il gruppo una sorta di oggetto misterioso e soprattutto poco noto agli appassionati inglesi, tanto da essere scambiato spesso per una band italiana o belga. Il disco comprende dieci tracce mediamente brevi, a parte la conclusiva "Suite For Selena", divisa in cinque segmenti: qui, dopo l'attacco della batteria, l'organo barocco e molto estroso di Kirsch sale in cattedra e guida le danze con variegati passaggi classicheggianti, sostenuti a dovere da una ritmica serrata. E' forse il momento più tipicamente prog di una sequenza dall'andamento alterno, gradevole ma non memorabile. Ci sono brevi e frizzanti sfoghi organistici di Kirsch ("Steamer" ad esempio), ben assecondato dal basso di Robert Wilson e dal batterista, in una ricetta che offre qualche pacata melodia di buona atmosfera come "Little Victim", con il canto solista in primo piano sullo sfondo dell'organo e dei bonghi di Jon Ashford, ed il flauto aggiunto di Pinder. Alcuni brani suonano però molto "sixties" nell'impostazione e nel cantato: dall'iniziale "Return of a Stranger" a "Freeway", basate sull'organo e le percussioni, fino a "Island", ancora con il flauto in appoggio all'organo e parti vocali che richiamano maestri del pop romantico come i Moody Blues. Nelle due parti di "Clog", il flauto prima e poi le tastiere riecheggiano invece un morbido pop-jazz un poco datato, e il debito col decennio precedente è confermato dalla cover di "Eleanor Rigby" dei Beatles, in una versione tumultuosa, tra un organo bachiano e il ritmo accelerato sulle percussioni, con il coro che affianca la voce solista. In seguito, Kirsch è stato produttore e autore di colonne sonore, nonché promotore di eventi negli Emirati Arabi. La ristampa in CD dei Malachi è curata dalla spagnola Picar.

"Malachi"

  Mandalaband   - Una band inglese che ruota intorno a David Rohl (Stretford, Manchester, 1950). Col primo gruppo The Sign of Life, e poi Ankh in lingua egiziana, registra per Vertigo un disco mai pubblicato. Più avanti recluta musicisti per il progetto-Mandalaband, e nel 1975 esce l'album omonimo () per la Chrysalis: Rohl però non partecipa all'incisione, perché l'etichetta impone al suo posto un altro produttore, e quando poi è chiamato a intervenire sulla registrazione si dichiarerà comunque insoddisfatto. E' invece un buon esempio di prog sinfonico, ricco di pregevoli atmosfere soprattutto nella lunga suite "Om Mani Padme Hum" ("O gioiello del loto!" in sanscrito), che riflette l'interesse del leader per il buddismo e per la causa del Tibet. Con la stentorea voce di David Durant in evidenza, i quattro tempi scorrono briosi sulle tastiere di Vic Emerson, l'incisiva chitarra di Ashley Mulford e una ritmica sostenuta, con generosi apporti della London Chorale. Vale soprattutto per il "Movement One", mentre nel seguito si ascoltano accattivanti inserti jazz del pianoforte ("Movement Two"), col basso di John Stimpson in evidenza insieme alla chitarra, oltre a momenti più armoniosi sulla bella voce solista e le tastiere ("Movement Three"), mentre l'ultimo segmento è ancora dominato dalla chitarra. Il resto offre trascinanti pagine di rock barocco, con l'organo in grande spolvero ("Determination") e tiratissime rock-songs come "Roof of the World", protagoniste batteria e chitarra, mentre la conclusiva "Looking In" è una morbida canzone per il piano di Emerson e il canto intimista. Rohl lavora poi come ingegnere del suono e produttore, finché dopo un film abortito sul "Signore degli anelli" per cui aveva già scritto dei brani, sceglie di mettere in musica il mondo fantasy di Tolkien con i Mandalaband: viene così pubblicato l'album "The Eye of Wendor: Prophecies"(1978). Ci sono voci e strumentisti del migliore rock-pop inglese e il leader suona soprattutto pianoforte e synth. L'impostazione è ancora sinfonica, con fiati e archi a supporto, e arrangiamenti variegati per seguire il racconto: si va dalla sontuosa apertura della title-track alla più eterea "Like the Wind", cantata da Maddy Prior (Steeleye Span), fino a brevi quadri descrittivi come "Almar's Tower" o "The Tempest". Molto bella "Dawn of a New Day", cantata da Justin Hayward dei Moody Blues, mentre tra i momenti più mossi c'è "Elsethea", con le voci dei 10cc, che poi si uniscono ai Barclay James Harvest nel pezzo "Witch Of Waldow Wood". Di grande effetto la sequenza finale "Funeral of the King"/ "Coronation of Damien", con la chitarra solista e il sax sugli scudi nel primo segmento, e un coro maestoso insieme ai fiati nel secondo. Sono tutti episodi brevi ma intensi, a volte uniti come micro-suites per comporre una sorta di rock-opera classicheggiante nei suoni e nelle belle armonie vocali, sotto l'abile direzione del leader. Oggi Rohl è soprattutto un egittologo di fama internazionale, ma occasionalmente ha rispolverato i Mandalaband per realizzare dischi come "BC - Ancestors" nel 2009, seguito da "AD - Sangreal" (2011). Varie le ristampe, mentre altre notizie sono disponibili nel sito ufficiale.

"Mandalaband"

"Om Mani Padme Hum (One)"

  Alain Markusfeld   - A lungo dimenticato anche dalla discografia, l'autodidatta Alain Markusfeld (Parigi, 1950) è stato un genuino protagonista della scena prog francese. Il suo esordio risale al 1970, quando pubblica "Le monde en étages" su etichetta Barclay: sette tracce di psichedelia debordante, con il chitarrista sulle orme di Jimi Hendrix, soprattutto nelle due parti di "La terre se dévore!" che mostrano tecnica e grinta. "Les têtes molles" è sviluppata sul pianoforte, e le tastiere spiccano accanto alla chitarra solista nella bella "Musique fatidique pour nuages fatigués", con voci corali e breaks ritmici di grande presa, fino alla più sinistra "Actualités spatio-régionales", dove l'organo affianca una voce sferzante. Molto più atmosferico è il successivo "Le son tombé du ciel" (1971), a cominciare dalla lunga title-track strumentale in apertura. Costruito sul piano elettrico di Laurent Thibault, il pezzo cresce lento sulla chitarra elettrica del leader, tra sincopi di batteria ed effetti speciali. La sequenza scorre su toni quasi dimessi ("Theleme"), con la chitarra acustica e vocalizzi abbinati al contrabbasso e alle percussioni, come nella conclusiva "Eve". Al rock più sanguigno è dedicato solo il breve "Jubal", mentre "L'homme a la tete felee" e poi "La durée n’est pas le temps" sono tranquille ballate con qualche effetto di synth. Dopo anni segnati da singoli come "L'épave" / "La croix de Modez" (1972) e "Le Gluemour" / "Le requin central" nel 1973, l'artista torna quindi nel 1977 con il suo disco più riuscito: "Le désert noir" (). L'attacco della briosa title-track, e anche la più breve "Marrakech Blues", parlano un linguaggio diverso e aperto a una vibrante fusion multietnica: chitarre trascinanti, acustiche ed elettriche, unite a percussioni tribali abbracciano nuovi scenari di suggestiva world-music. Markusfeld suona anche basso e piano, affiancato soltanto dal batterista Jean-François Leroy e dai vocalizzi di Patricia Pernoo in un album interamente strumentale e ricco di colori: bella soprattutto "Atlantis Rock", dal riff elettrico vincente, mentre la tiratissima "Bulgaro-Feld" scorre sotto il dominio di una chitarra elettrica dal timbro acido. Forti sapori etnici si ascoltano anche nelle due parti di "Jupiter Forever", su ritmi mordenti e vivaci inserti di pianoforte, fino alla più atmosferica "Patita Song". Un disco notevole, seguito nel 1978 da un album come "Platock", principalmente acustico e alterno nei risultati. Il musicista suona in solitudine, a parte le percussioni di Jean Schultheis e i vocalizzi di Patricia, in brani a volte un po' involuti sulla chitarra acustica ("Fayava"), mentre "Automne et eternité", più interessante, è costruita sul pianoforte e l'organo, con innesti di chitarra elettrica nella seconda parte. Il fulcro è la suite "Platock Concerto" in quattro tempi: a volte eterea, a volte più ritmica e ossessiva, con la chitarra acustica protagonista assoluta, è una composizione intensa che a volte si avvita su se stessa, vivacizzata dalla voce femminile nel quarto movimento. Con il successivo "Contemporus" (1979) il musicista approfondisce il discorso: è musica affascinante e mutevole, senza percussioni, divisa equamente tra pianoforte e chitarra, più la voce. Oltre alla suggestiva atmosfera sospesa di "Il pleut sur le troisième millénaire", proprio la suite che intitola il disco è l'esempio migliore di questa nuova ricerca, specie nel secondo tempo, dove i diversi elementi convergono in modo originale. Tuttora attivo, il musicista si è avvicinato sempre più al jazz. Ristampe in CD di Amphonotones.

"Le désert noir"

  Marsupilami   - Gruppo inglese dei primi anni Settanta, i Marsupilami hanno all'attivo due dischi di sicuro interesse. Già nell'esordio omonimo (1970) il sestetto mette in luce un progressive non banale, caratterizzato dall'uso frequente della doppia voce, maschile e femminile, e trame sonore fitte di spezzature e cambi di tempo. La patina vagamente esotica delle parti strumentali poggia, sin dall'iniziale "Dorian deep", sul flauto della cantante Jessica Stanley-Clarke, le percussioni di Mike Fouracre e l'organo di Leary Hasson. Ognuno dei cinque brani ha una scrittura imprevedibile, a volte frammentaria, ma sempre molto inventiva. La bella voce di Fred Hasson domina l'atmosfera solare di "Born To Be Free", mentre il resto del disco privilegia tonalità più spigolose e oscure, con i picchi barocchi dell'organo ("Ab initio ad finem"), immersi nel reticolo di flauto, percussioni assortite e chitarra distorta. Senza essere dei virtuosi dal lato tecnico, i Marsupilami sanno comunque catturare l'attenzione con il fascino delle parti vocali e i contrasti cromatici della loro musica, di volta in volta delicata, aggressiva o misteriosa, come nel frastagliato epilogo di "Facilis descensus Averni". Nel secondo album della band, "Arena"(), pubblicato nel 1971, si segnala la partecipazione alle percussioni di Peter Bardens (il futuro Camel), oltre ai contributi del cantante Bob West e di un secondo fiatista. Questo concept dedicato alla Roma antica mantiene per il resto le stesse qualità del disco precedente, esaltate semmai dal contesto storico: l'esotismo chiaroscurale tipico del gruppo sembra ideale per restituire i diversi umori del mondo romano classico, dai cruenti giochi circensi al lirismo bucolico, fino alla religiosità pagana. Suggestivo l'attacco di "Peace of Rome", ancora col flauto in evidenza, mentre con "The arena" tornano le pregevoli armonie vocali prima che il brano si dilati sull'organo e il fitto lavoro delle percussioni. Più spigolosa, scandita dal fraseggio serrato del piano e del basso, è "Time Shadows", con flauto e sax protagonisti nella progressione finale. La chiusura di "Spring" è un motivo aperto che pulsa sul basso, e si ramifica tra le spirali folk del flauto e il gioco sempre abile delle voci. In conclusione, due dischi piuttosto originali e da ascoltare con interesse per questa band britannica di scarsa fortuna. CD della coreana Won-Sin.

"Arena"

  John Martyn   - Musicista scozzese (Glasgow, 1948) e veterano del folk-rock inglese, John Martyn ha inciso dischi di assoluto valore. Messo sotto contratto dalla Island esordisce con "London Conversation" (1967) e firma poi con sua moglie Beverley album come "Stormbringer" e "Road to Ruin", un disco dove suona anche il bassista e stretto collaboratore Danny Thompson (ex Pentangle). Il meglio di Martyn è racchiuso tra il 1971 e il 1975, quando la sua maturità stilistica lo impone all'attenzione di pubblico e critica. "Bless the Weather" (1971) offre dieci tracce che mostrano i suoi tratti peculiari: la voce vibrante e ricca di sfumature, unita a una tecnica chitarristica eccellente, oltre al sofisticato tessuto strumentale a cura di Thompson e altri, sintetizza suggestioni sparse tra folk, jazz e blues. Oltre alla title-track, spiccano "Let the good things come", con la seconda voce di Beverley, la solare "Go easy" e la più complessa "Glistening glynderbourne", tutta strumentale e ricca di raffinate soluzioni in area fusion. Il picco artistico è rappresentato dal successivo "Solid Air" (1973), disco splendido per omogeneità di stile e arrangiamenti. La voce passa con naturalezza dai toni più fluidi di "Over the hill" a quelli più introspettivi di "Don't want to know" e della title-track, dedicata all'amico Nick Drake, mentre la band, Danny Thompson più alcuni membri dei Fairport Convention, sviluppa un sound raffinato e a tratti sorprendente. Vanno citate la grintosa e chiaroscurale "I'd rather be the devil", con Martyn alla chitarra elettrica, e soprattutto "Dreams by the sea", con tanto di sax e piano elettrico in una dimensione fusion ancora più convincente. "May you never" e "Go down easy" ci propongono invece un autore ormai maturo, perfetto nel canto intimista e nelle note acustiche della sua chitarra. Il più sperimentale "Inside Out" (ancora 1973), una sorta di concept dedicato all'amore e realizzato con ospiti come Stevie Winwood e Chris Wood, sembra accentuare soprattutto il lato strumentale. Tra estrose improvvisazioni jazzate, suggestioni blues e magie vocali il disco regala nuove sorprese: "Ain't no saint", "Outside in", "Make no mistake" e "Ways to cry" sono le gemme di un disco anomalo, dal fascino oscuro. Con "Sunday's Child" (1975), lo scozzese recupera il suo stile più classico: dal rock di "Root love" alla canzone del titolo, fino agli episodi più sereni dedicati alla vita familiare: la delicata "My baby girl" ad esempio (ancora con Beverley seconda voce) e "You can discover", dove chitarra e basso s'incontrano magistralmente con il piano di sfondo. Belle anche "Spencer the rover", un traditional rielaborato, e la rarefatta chiusura di "Call me crazy", che si spegne dolcemente. Il periodo d'oro finisce qui, e la carriera di John Martyn prosegue tra alti e bassi in maniera più frammentaria, fino alla scomparsa nel 2009. Info nel sito ufficiale.

"Solid Air"

  Matching Mole   - Uscito dai Soft Machine nel 1971, il batterista e cantante Robert Wyatt mette insieme un quintetto prettamente canterburyano, il cui nome è ispirato al suono della traduzione francese di Soft Machine (Machine Molle). Il primo disco omonimo (1972) comprende otto brani che riassumono bene il talento creativo del cantante: dediche delicate ("O Caroline") o decisamente sperimentali ("Dedicated to Hugh, but you weren't listening"), con sonorità cerebrali di tastiere (Dave Sinclair e Dave MacCrae) e chitarre cariche d'effetto (Phil Miller). E' una musica tecnicamente pregevole ma sempre alla ricerca di spunti alternativi, innervata dall'estrosa e trasognata vocalità di Wyatt ("Instant pussy", "Instant kitten" e "Signed curtain"). Negli episodi lunghi, come "Part of the dance", il tessuto strumentale sempre inventivo si apre all'improvvisazione, con il basso di Bill MacCormick in serrata combinazione con la batteria del leader e virtuosismi dei singoli. Lo schema informale, come nel migliore free-jazz, torna in "Beer as in Braindeer", mentre a parte sta il finale da brividi di "Immediate curtain", con Wyatt impegnato al mellotron. Pochi mesi più tardi è la volta di "Little Red Record" (ancora 1972), prodotto da Robert Fripp, e con la defezione di Sinclair che sta per fondare gli Hatfield and The North. La copertina coi quattro in posa maoista incuriosisce, ma lascia senza fiato l'apertura di "Starting in the middle of the day we can drink our politics away", con Wyatt che canta in chiave tenorile un tema circolare ad effetto. A parte la morbida "God song", il disco si mantiene sugli ottimi standard del precedente, tra jazz-rock anomalo e provocazioni. Su tutti l'affilata "Marchides", col piano elettrico di MacCrae in primo piano, quindi "Righteous rumba" e la saltellante "Brandy as in benj", con basso e chitarra protagonisti, e la chiusura di "Smoke signal", rarefatto collage di fratture ritmiche e suoni in libertà. L'ospite Brian Eno (ancora coi Roxy Music) caratterizza al sintetizzatore la misteriosa "Gloria gloom", immersa in astrusi vocalizzi di sfondo. Durante un party per l'uscita dell'album, Wyatt cade da una finestra e rimane paralizzato. Sembra la fine, ma è solo l'inizio della sua seconda vita artistica.

"Little Red Record"

  Materia Gris   - Formati nel 1970 come quartetto, i Materia Gris realizzano lo stesso anno il 45 giri "Quiero ser ave y poder volar" / "Carta para un amigo". Il gruppo viene quindi scritturato dalla EMI che produce il primo album "Oh perra vida de Beto" (1972), considerato la prima "rock opera" argentina: si tratta in realtà di un classico concept-album incentrato sulla vita di un uomo qualunque. Il disco è diviso in due atti ("Opera Dulce" e "Opera Amarga") per un totale di sedici segmenti piuttosto brevi: nessuna traccia arriva ai cinque minuti e lo stile è dinamico e asciutto, senza troppi orpelli. La mancanza delle tastiere in organico, a parte sporadici inserti, lascia spazio ad un rock basato sulle due chitarre, e soprattutto alle voci ben impostate, spesso corali, dal gusto tipicamente latino. La chitarra solista di Edgardo Rapetti è il fulcro dell'ispirazione, e mette in luce l'influenza della psichedelia dell'epoca, inserita con freschezza nel vivace contesto armonico: ad esempio in "Nacimiento" o "Compañero de banco", con una chitarra hendrixiana, e poi nella più oscura "Un largo tiempo", con basso e chitarra in bella evidenza assieme alla batteria. La sequenza propone anche gradevoli parentesi di sapore melodico, spesso brevissime, come la morbida "Canción de Cuna", stavolta con la chitarra acustica sotto la voce, o "El te ayudará". Il brano dove le due anime sembrano fondersi è invece "La teoría positiva": il pianoforte dell'ospite Litto Nebbia costruisce qui un'atmosfera sofisticata sulla quale la voce s'innesta con naturalezza preparando il sanguigno sviluppo rock della seconda parte. "La angustia" è costruita a dovere sulle chitarre (acustica ed elettrica), ma soprattutto valorizzata dal basso dinamico di Omar Constanzo e dalle percussioni di Carlos Riganti, mentre "Reflexión" sfoggia grintose parti vocali accanto a una chitarra solista molto acida, affiancata nel finale dal sax. Anche se a tratti datato, e ingenuo in alcune soluzioni, "Oh perra vida de Beto" resta un classico della scena argentina, per la capacità del gruppo di integrare i nuovi fermenti rock nel contesto melodico della propria tradizione. La band aveva concepito un secondo lavoro, "Pandemonium", presentato dal vivo nel 1973, ma si sciolse prima di realizzarlo su disco. In seguito, Riganti forma gli Alas, mentre Constanzo suona con i Naranja Mecánica.

MateriaGris_Beto

"Oh perra vida de Beto"

  Maxophone   - Tra i più riusciti tentativi italiani di progressive sinfonico e romantico, i lombardi Maxophone, formati a Milano nel 1973, firmano un ottimo album omonimo (1975), registrato anche in versione inglese, ma poi si sciolgono dopo un altro singolo datato 1977 ("Il fischio del vapore"/"Cono di gelato"). Eppure la loro prova maggiore presenta un bagaglio tecnico/espressivo di primissimo ordine: tre dei componenti vantano non a caso un tipico background classico da conservatorio, che si amalgama perfettamente con l'anima rock degli altri. Il sestetto (tastiere, chitarra, basso, batteria e ben due fiatisti) offre perciò una musica ricca di soluzioni, varia e insieme vigorosa, con una felice spruzzata di melodia che rende il tutto estremamente godibile. Dall'iniziale "C'è un paese al mondo", ariosa e solare dopo un riff di chitarra elettrica (Roberto Giuliani) e il corno di Maurizio Bianchini che cita en passant Bela Bartok (dal Concerto per orchestra), a "Elzeviro", drammatico e teso ritratto della violenza politica di quegli anni, con splendide e continue ripartenze. L'unico strumentale è "Fase", decisamente in area jazz, ma lasciano il segno anche un trasognato episodio come "Mercanti di pazzie" e, proprio in chiusura, la profezia antirazzista di "Antiche conclusioni negre", che sfuma in una sorta di gospel. Probabilmente, però, il capolavoro vero della sequenza è "Al mancato compleanno di una farfalla": in questo caso, l'elegante allegoria del testo offre il destro per una dialettica esaltazione dell'attimo vivo, contro ogni pessimismo, con la voce di Alberto Ravasini che sale di tono insieme all'organo di Sergio Lattuada. Un pezzo davvero elegante e incisivo. In generale, l'amalgama tra le parti è sempre brillante, e si esalta nelle fratture e nei vivaci cambi di tempo, punteggiati soprattutto dai fiati (clarinetto, flauto, corno e tromba) in una scaletta che resta esemplare anche oggi. Da non dimenticare neppure l'ottimo livello dei testi: affidati ad un pugno di autori esterni, suonano oggi come un manifesto screziato e verosimile di un decennio pulsante e problematico come furono i Settanta italiani. Un album vivamente consigliato, ristampato da Mellow Records, Akarma e BTF: quest'ultima label ha poi fatto uscire il cofanetto "From Cocoon to Butterfly" (2005), che include un cd con inediti, versioni alternative e un dvd con filmati televisivi dell'epoca. Tra i componenti, il fiatista Leonardo Schiavone ha militato per qualche tempo negli Stormy Six alla fine degli anni Settanta. Una nuova edizione del gruppo, schierato a quintetto e con i soli Lattuada e Ravasini della fase storica, ha partecipato poi al Club Città di Tokyo nel 2013: dal concerto è stato tratto l'album "Live in Tokyo" (2014). Nel 2017 è uscito infine "La fabbrica delle nuvole"(), disco ancora notevole basato sui testi del poeta Roberto Roversi.

"Maxophone"

  May Blitz   - Formazione inglese, nata a Londra nel 1969 da due ex-Bakerloo come Terry Poole e Keith Baker, che però lasciano quasi subito, i May Blitz si stabilizzano in trio con James Black (chitarra e voce), il bassista Reid Hudson e il percussionista Tony Newman. Il loro esordio è un disco omonimo () pubblicato dalla Vertigo nel 1970, e nonostante le premesse non è solo l'ennesimo esempio di power-trio allora così in voga. L'alone fascinoso che avvolge le sette tracce è infatti il risultato di una perfetta alchimia tra elementi diversi: suggestive parti vocali, anomalo hard rock in salsa blues e soprattutto una scrittura particolarmente inventiva che fa la differenza. In una sequenza senza punti deboli, si segnalano tra gli altri brani come "Smoking the Day Away", con pirotecnichi dialoghi tra chitarra acustica e basso, la splendida "Dreaming", un blues rarefatto che cresce sulla voce di Black e i picchi chitarristici, con improvvise accensioni del ritmo, e ancora "Tomorrow May Come", mirabile magia psichedelica per voce, chitarra e il vibrafono di Newman. Più acide e grintose sono "Squeet", "I don't Know?" e "Fire Queen", con la voce solista protagonista di rock-blues elettrici e nervosi, mentre la chiusura di "Virgin Water" impasta ingredienti psichedelici sullo sfondo del mare. Il secondo e ultimo atto della band è "The 2nd of May" (1971) e, sebbene a volte sottovalutato, è un altro disco eccellente. A parte il rock duro e martellante dell'iniziale "For Mad Men Only", restano le tipiche armonie vocali incastonate dentro hard rock sinistri (la stupenda "Snakes and Ladders") o di irresistibile tensione ritmica ("8 Mad Grims Nits"), ma non mancano episodi più imprevedibili. Ad esempio "In Part", una disinvolta contaminazione di rock, blues e jazz con un lungo assolo di batteria, il consueto blues ipnotico con tanto di vibrafono aggiunto ("Honey Coloured Time") e quindi la finale "Just Thinking", davvero un degno sigillo psichedelico tra chitarre ad effetto e sfumate armonie corali. La mancanza di vendite soddisfacenti pone presto fine all'avventura dei May Blitz, ma i loro dischi restano a testimoniare il valore di questa pur breve esperienza. Tra i membri, il più attivo in seguito è sicuramente il batterista Newman, che suona prima con i Three Man Army dei fratelli Gurvitz , e quindi con i T. Rex (1976-'77), ma vanta collaborazioni e tour con molti nomi celebri della scena pop-rock, tra i quali David Bowie. Tra le diverse ristampe oggi disponibili si segnalano quelle a cura di Akarma Records, in CD e vinile.

"May Blitz"

  Mémoriance   - Provenienti da Le Havre, in Normandia, i francesi Mémoriance si formano nel 1975 e lasciano due album e un singolo alle cronache del prog transalpino. La band è un quintetto con due chitarre, tastiere, basso e batteria, dedita a un prog sinfonico abbastanza vivace, anche melodico a tratti, con liriche in lingua madre: l'insieme si colloca nella scia di altri gruppi francesi, ma con discreta personalità. L'esordio di "Et aprés..." () è pubblicato nel 1976 da Eurodisc, sub-label della tedesca Ariola. Dei quattro brani in scaletta, tre sono di media e lunga durata, come l'incipit di "Je ne sais plus", tra i momenti migliori: aperta dalla sezione ritmica, la traccia si sviluppa sulle tastiere di Jean-François Périer e sulle voci corali, con limpidi inserti della chitarra solista di Didier Guillaumat e una serie di gustose variazioni strumentali guidate dal piano e dalla chitarra ritmica (Jean-Pierre Boulais), in un impasto tanto romantico quanto dinamico. Più drammatica e alterna è la title-track, dove la chitarra ritmica dialoga con la batteria e il basso creativo di Michel Aze, prima di parti liriche parlate su toni concitati e un buon crescendo finale che esalta la chitarra solista e il coro. Notevole anche "La grange Mémoriance", la traccia più lunga della sequenza: dopo l'attacco in sordina, cresce una progressione sulla chitarra solista che si carica via via d'intensità tra ficcanti breaks di basso e tastiere a creare una bella tensione, sottolineata al meglio dal batterista Didier Busson. In chiusura, la chitarra ritmica sale in cattedra insieme alle percussioni, sullo sfondo liquido delle tastiere. Nel più breve epilogo strumentale di "Tracsir" la chitarra di Guillaumat si prende ancora la scena con lunghi soli ad effetto, sempre ben assecondata dal vibrante duo ritmico e dall'organo. Il successivo "‘L'écume des jours’ d'après Boris Vian", pubblicato nel 1979, suona invece molto diverso. Basato come da titolo sul libro di Boris Vian (in italiano "La schiuma dei giorni"), è un concept frazionato in ben quindici episodi. La formazione si allarga a sestetto con l'aggiunta di un secondo tastierista come Pascal Libergé, mentre Christophe Boulanger è il nuovo batterista. Il risultato è un prog più variegato e ricco, con le tastiere e soprattutto il synth in maggiore evidenza: da "Colin" all'epilogo di "Vers une Île", passando per "Une Fille Demain". Il piano spesso è protagonista nei brani più mossi ("Le Petit Tas de Neige" o "Chloé et Colin"), con parti vocali molto teatrali che ricordano gli Ange, mentre sempre incisiva suona la chitarra solista ("Une Femme Si Bête" o "Renvoyé"), ma l'insieme risente di una concezione fin troppo composita, che privilegia soprattutto gli snodi del racconto. E' un album comunque interessante, che conferma lo spessore di questa band normanna, sciolta infine nel 1981 dopo il singolo "Sparadrap"/"Téléphone". Ristampe disponibili in CD e vinile.

"Et aprés..."

"La grange Mémoriance"

  Messaggio 73   - Come altri paesi, l'Italia dei Settanta ha visto crescere un filone rock minoritario di ispirazione religiosa, che raramente però ha raggiunto grande visibilità fuori da un preciso circuito. E' appunto il caso del Messaggio 73, gruppo che ha le sue radici nell'oratorio di Maggianico, quartiere di Lecco, dove si costituisce un complesso di giovanissimi che ha il suo ispiratore nel maestro Giuseppe Mazzoleni e che porta in scena un recital intitolato "E la luce fu" già nel 1974. Dallo spettacolo furono selezionati gli otto brani che confluirono appunto nell'album "Una ragione per vivere", pubblicato nel 1975, dopo la scomparsa in un tragico incidente del tastierista Renato Bodega e del tecnico delle luci Sergio Colombo. Se i contenuti lirici sono più o meno prevedibili dato il contesto, la parte musicale del disco è una sorta di pop-rock melodico a volte un po' scolastico, anche se in fondo piuttosto gradevole nel suo sviluppo, con richiami sia al decennio precedente che ai nuovi fermenti di quegli anni. L'organico comprende due tastieristi e due chitarre, più basso e batteria, ma anche se non figura nei credits un ruolo centrale ha il violino di Mazzoleni, che firma diverse tracce: ad esempio l'iniziale "Concerto Pop", articolata sul pianoforte e il violino, con un corposo apporto di synth e chitarra nel finale, e quindi una spigliata rilettura del celebre "Adagio" di Albinoni. Tra gli altri brani si segnala soprattutto "La scelta", con una trama rock vigorosa e dinamica, tra le tastiere di Mario Vassena in buona evidenza e gli spunti incisivi della chitarra elettrica di Enzo Spreafico. La commossa "Sergio e Renato" ricorda i due compagni scomparsi, mentre la title-track è una placida melodia sorretta ancora da pianoforte e violino, dal synth e dalla garbata voce solista che interpreta i testi concepiti da Walter Orsati. L'epilogo di "Poema" è invece la briosa ripresa di una composizione del musicista ceco Zdenĕk Fibich, e dopo l'intro sincopata per organo e batteria vede ancora protagonisti le tastiere, la chitarra e di nuovo il violino. La ristampa a cura di AMS del 2012 aggiunge due brani inediti registrati nel 1974, e quindi un secondo CD con l'intero spettacolo "E la luce fu", catturato live a Cernusco. Se il recital venne rappresentato con successo per anni, arrivando a quasi centocinquanta repliche e guadagnando anche l'attenzione della Rai, l'album del Messaggio 73 aggiunge poco al prog italiano più celebrato, ma è un ascolto piacevole e interessante per capire la capacità di penetrazione del rock nell'Italia profonda degli anni Settanta, inclusa la rete delle comunità cattoliche.

"Una ragione per vivere"

"La scelta"

  Metabolisme   - Nella seconda metà degli anni Settanta, mentre in Italia e in altri paesi europei il progressive si va spegnendo sotto i colpi di Punk e Disco Music, in Francia escono ancora fuori gruppi e artisti di un certo interesse. È il caso dei Metabolisme, una band che si forma a Mentone nel 1969 e solo dopo una lunga serie di concerti nel sud della Francia, una volta trasferitasi in pianta stabile a Parigi trova finalmente uno sbocco discografico con la Crypto, celebre etichetta creata dagli Ange e Jean-Claude Pognant. L'album "Tempus Fugit" (), pubblicato nel 1977, resterà anche l'unico di questo valido quartetto. I Metabolisme suonano un prog sinfonico elegante e rifinito, che indubbiamente ha ben digerito i capiscuola inglesi del genere, ma conserva una personalità e un gusto molto francesi: lo si vede già nella lunga traccia in apertura, "Apôtres et martyrs", che abbina pregevoli armonie vocali, spesso corali, alle tastiere di Thierry Scaduto (organo, synth e piano) e ai cambi di tempo nei quali si esaltano il basso creativo e vigoroso di Jackie Poillot e la batteria di Carmine Versace. È probabilmente il picco della sequenza, ma gli altri quattro brani sono comunque di buon livello, a cominciare dal brioso strumentale "Tempus", con batteria e chitarra solista che punteggiano a dovere le ricche tastiere tra pause e ripartenze, con i trilli del flauto nei momenti più intensi. Più melodica è "Nadia", con il pianoforte in evidenza insieme alla chitarra di Robert Durantet e un bel crescendo finale sulle voci corali, mentre "Choros" si apre in un clima bucolico, col flauto e la chitarra acustica al proscenio, prima di evolvere in una maestosa progressione di tastiere costellata di vivaci breaks, oltre alle consuete parti vocali, a volte ridondanti. Un alone gotico e psichedelico insieme, seppure placido e ben dosato, si respira anche nella conclusiva "La Danse Des Automates", che si articola sulla versatile trama dell'organo e sul canto solista supportato dal coro, con morbide parti di chitarra e flauto in appoggio. Senza essere un capolavoro, anche perché arrivato in netto ritardo sui modelli in voga all'inizio del decennio, ma comunque ben suonato da cima a fondo, "Tempus Fugit" si segnala tra i migliori esempi del prog sinfonico transalpino, rimasto purtroppo senza seguito: a quanto pare, i Metabolisme erano pronti a realizzare un secondo album, ma invece non se ne fece nulla e nel 1979 il gruppo si sciolse. Ristampe a cura di Musea (cd) e Replica (vinile).

"Tempus Fugit"

  Metamorfosi   - Questo gruppo romano, che nasce nel 1970 sulle ceneri dei Frammenti, formazione minore del Beat italiano, ha inciso due dischi nel giro di un anno e poi si è sciolto, lasciando comunque un buon ricordo negli appassionati, e dopo un lungo silenzio è è tornato finalmente all'opera. L'esordio è del 1972: "...E fu il sesto giorno" è un album molto in linea con il clima del tempo, permeato di una certa ingenuità nei testi, dedicati a Cristo ( come "Crepuscolo"), e in generale al pacifismo e alla solidarietà, secondo un'ottica tardo-beat. È soprattutto l'energica voce di Davide Spitaleri a personalizzare brani quali "...E lui amava i fiori" o "Nuova luce", episodi musicalmente dominati dall'organo di Enrico Olivieri e dal flauto, con misurati interventi della chitarra elettrica di Luciano Tamburro. L'ispirazione pacifista dei Metamorfosi si esprime anche in un titolo eloquente come "Hiroshima". La formazione arriva poi alla seconda prova discografica con un nuovo organico. In "Inferno"(1973) manca infatti la chitarra di Tamburro e Gianluca Herygers rileva Mario Natali alla batteria. Il ruolo guida delle composizioni è così ricoperto dal parco-tastiere di Olivieri, e indubbiamente la voce di Spitaleri continua a offrire molte suggestioni a questa fosca illustrazione del poema dantesco. Colpiscono in particolare certe riletture, in chiave più contemporanea, dei dannati eterni: "Spacciatori di droga" ad esempio, o "Lucifero", che allude ai 'politicanti'. L'impostazione quasi da 'basso' del cantante è qui davvero efficace, come pure nella scena dei "Lussuriosi", dove il peccato degli amanti è rievocato con accenti di sospirosa e dolente nostalgia dal canto solista. Lontano dalle timidezze del debutto, "Inferno" resta sicuramente uno degli album-concept più interessanti del periodo e non stupisce che il gruppo, dopo venticinque anni, abbia deciso di ripartire proprio da qui: il disco della riunione, infatti, si chiama "Paradiso" (2004), ed è stato seguito poi, nel 2016, da "Purgatorio" ,che chiude la trilogia dantesca. Da notare che nel periodo 2009-2012, Davide Spitaleri è stato pure il cantante de Le Orme, mentre da solista ha pubblicato un paio di album come "Thor" (1979) e soprattutto "Uomo irregolare" nel 1980. Con i testi importanti di Maurizio Monti e la partecipazione di Mauro Pagani al violino, il secondo disco conferma le notevoli qualità d'interprete del cantante: tra i brani spicca la drammatica "Luna Park", ma sono belle anche "Il servo" e la title-track.

"Inferno"

  Mezquita   - Tra le molte formazioni andaluse degli anni Settanta, i Mezquita, originari di Córdoba, si segnalano sul finire del decennio con uno dei dischi più rinomati del genere. "Recuerdos de mi tierra" (), pubblicato nel 1979, è inciso da un quartetto classicamente impostato che integra a perfezione la tradizione musicale del flamenco con i dettami del rock sinfonico e romantico di scuola inglese: il risultato è un disco attraente, vivace e insieme personale. I sei brani che lo compongono si connotano soprattutto per la frizzante mistura di temi ritmici e il pathos della parte lirica, a cominciare dalla title track posta in apertura, esuberante altalena di tonalità festose e drammatiche, con la chitarra solista di Jose Rafael Garcia in smagliante evidenza, insieme al colore intenso delle tastiere e al gioco serrato della sezione ritmica. Anche le voci seguono l'impostazione tipica della tradizione andalusa, sia pure senza raggiungere il livello espressivo di altri gruppi coevi (ad esempio i maestri Triana). Bello l'attacco di basso e batteria in "Desde que somos dos", con la chitarra flamenca e i violini che irrompono a metà brano, con un effetto davvero trascinante. Tra gli episodi più legati alla tradizione araba del Sud della Spagna c'è poi "Ara Buza", che abbina il ritmo del flamenco con un rock sanguigno, il pathos delle voci e continui cambi di tempo dominati dal brillante synth di Rosca Lopez, sicuro protagonista dell'intero album. Chitarra solista e tastiere sono anche la principale attrattiva di un pezzo come "El bizco de los patios", con un fraseggio serrato di grande energia, mentre la più accorata "Suicidio" (sulle vittime della droga) vede Garcia impegnato sia alla chitarra elettrica che a quella acustica. Degno suggello è lo strumentale finale "Obertura en si bemol", che riassume gli umori inconfondibili dell'album, con eccitanti combinazioni di synth e chitarra. I Mezquita si ripresentano due anni dopo con un disco come "Califas del rock": la formazione è identica, ma il risultato è un rock più convenzionale, anche se alcuni episodi ("Así Soy Yo", "Aguas del Guadalquivir" o "La montana, la ciudad") confermano le qualità di fondo di questa pregevole band spagnola. Ristampe a cura di Si-Wan e Picar.

"Recuerdos de mi tierra"

  Midnight Circus   - Una certa oscurità circonda il nome di questo duo tedesco che ha lasciato alle cronache musicali un solo album, preceduto da un singolo, prima di sciogliersi. I due protagonisti sono Christian Bollmann (voce, chitarra e fiati) e Torsten Schmidt (voce e chitarra), che nel 1972 realizzano il disco omonimo () per la nota etichetta Bacillus: sette tracce che partono da un morbido folk acustico in gran parte sorretto dalle chitarre e dalle buone voci di entrambi, ma con apporti di tastiere, flauto e percussioni che a tratti spostano lo stile verso un peculiare rock psichedelico molto personale. L'apertura di "The Light" è una placida ballata sviluppata a dovere sulle chitarre acustiche, con discrete armonie vocali e l'aggiunta del flauto, e pur se molto vicino al folk-rock di scuola inglese offre un saggio delle buone possibilità del duo, confermate dal resto della scaletta. Il brano che spicca è senz'altro la lunga "November Church", aperta e chiusa da un coro suggestivo e articolata tra pause e accelerazioni, con il contributo decisivo delle percussioni e inserti liturgici in lingua latina catturati nel duomo di Bonn, oltre alla tromba ad effetto di Bollmann: un insieme inconsueto ma originale, che indubbiamente lascia il segno. Un vivace folk psichedelico trionfa nel breve strumentale "Indian Impression", col flauto di Bollmann protagonista assoluto, come pure nella malinconica "Disappointed Love", dove il canto solista di Schmidt è in primo piano e il pianoforte fa da sfondo elegante ai ficcanti inserti del flauto, in uno schema di pause e riprese ben congegnato. Altri episodi del disco sono assimilabili alle sonorità del tempo, come ad esempio "Mr. Clown", molto prossimo a certa musica west-coast, con le belle voci in evidenza sul gioco raffinato delle due chitarre, mentre la più varia "I Had a Dream", con la batteria propulsiva di Thomas Engel protagonista, lascia emergere anche un fascinoso mellotron sotto il canto brioso a due voci. L'altro brano strumentale della sequenza è la finale "Meditation", ennesimo esempio di folk vicino alla psichedelia: un flauto assorto e insieme acido domina la scena, affiancato però dall'uso peculiare delle percussioni che creano un alone di mistero piuttosto intrigante. L'unico disco dei Midnight Circus, ancora oggi molto godibile e non banale, ribadisce in sostanza l'influsso che il folk-rock di lingua inglese ebbe anche sulla ricca scena tedesca dei Settanta. La ristampa in CD a cura di Citystudio Media Production (2003) aggiunge i due brani del 45 giri, ancora di buon livello, non inclusi nell'album: "Coloured Gay"/ "Get It". Schmidt è scomparso nel 2019, mentre Bollmann è ancora musicalmente attivo, tra jazz, rock e altri progetti: è considerato tra l'altro un pioniere del canto armonico in Germania. Altre notizie nella sua pagina ufficiale.

"Midnight Circus"

"November Church"

  Minotaurus   - Originari di Oberhausen, nella Renania Settentrionale, i Minotaurus (dal mitologico uomo-toro di Creta) si formano intorno alla metà dei Settanta e lasciano un solo disco agli annali del prog-rock tedesco. La band si guadagna una certa fama locale quando accompagna dal vivo un cortometraggio di George Lucas, presentato nel corso dello "Short Film Festival" della propria città, con un pezzo composto nel 1977. Più avanti, una volta messo insieme nuovo materiale, i Minotaurus realizzano il loro unico album "Fly Away" nel 1978. Registrato nello studio di Günther Henne (Epidaurus) che mette a disposizione anche il suo mellotron, e autoprodotto in circa mille copie, è un disco gradevole ma alterno, suonato da un sestetto con due chitarristi, chiaramente ispirato dal prog sinfonico inglese più noto, con echi dei connazionali Eloy qua e là. La sequenza include sei brani: più ancora dell'iniziale "7117", con largo uso del synth di Dietmar Barzen e vivaci spunti dei due chitarristi tra i frequenti cambi di tempo, si segnalano soprattutto "Your Dream", con il tema rilanciato continuamente dalla chitarra ritmica e indovinati innesti di synth, col canto di Peter Scheu in evidenza nelle pause e un'atmosfera romantica ad effetto, e poi anche "Lonely Seas". Quest'ultimo è ancora un episodio costruito con perizia sulla chitarra acustica, le tastiere di sfondo e il canto ispirato, prima che un cambio di tempo sulla batteria di Ulli Poetschulat lasci spazio alla chitarra solista di Michael Helsberg. Nella lunga title-track, mellotron e chitarra solista tessono una dimensione che richiama facilmente i migliori Genesis: ci sono parti trasognate di buona suggestione, sia pure diluite in una scrittura mossa e non sempre calibrata a dovere, con l'uso massiccio del synth nella convulsa parte finale. Se "The Day the Earth Will Die" mette ancora insieme l'organo di Barzen e le due chitarre in uno schema più dinamico, a volte trascinante, un episodio come "Highway" appare invece un tentativo poco riuscito di rock-song di taglio americano, con la chitarra solista in primo piano. A conti fatti, sebbene di piacevole ascolto, "Fly Away" è un album in chiaroscuro, che potrà comunque offrire qualche sorpresa ai cultori del prog romantico e sinfonico. Il gruppo si disperde nel 1979 dopo una discreta attività live e l'abbandono di Helsberg, e in seguito nessuno dei suoi membri, quasi tutti autodidatti, risulta più attivo come musicista. Ristampato in CD da Garden of Delights con una bonus-track, ma esistono anche un paio di riedizioni in vinile.

"Fly Away"

  Missing Link   - Un'altra formazione tedesca poco fortunata, originaria di Monaco di Baviera e titolare di un solo album realizzato nel 1972 per la United Artist: "Nevergreen!" () è in realtà un disco composto di sette episodi piuttosto brillanti, all'insegna di un prog dai tratti fusion, vivace e soprattutto molto inventivo. Nel ricco tessuto strumentale del sestetto c'è spazio per il sax di Günther Latuschik accanto alle chitarre di Markus Sing e alle tastiere del talentuoso Dieter Miekautsch, oltre alla discreta voce solista di Gabriel Dominik Mueller, che canta in lingua inglese. Interessante l'attacco di "Spoiled Love", costruita sulle chitarre (elettrica e acustica) ma con l'apporto di piano elettrico e mellotron, mentre un jazz-rock di gran classe si impone in "Time Will Change", con i pregevoli spunti del piano, del sax e soprattutto della chitarra elettrica: l'intreccio sonoro è sempre dinamico e stimolante, molto ritmico nel suo sviluppo. Di buon effetto anche "Only Me", con i potenti riff del sax incastonati nella trama drammatica dominata dalla voce, tra pause e riprese continue, con l'utilizzo stavolta di percussioni dal sapore etnico. Sorprendente l'inserto di un clavicembalo "bachiano" nell'articolazione barocca di "Filled Up", uno degli episodi più tipici dell'approccio imprevedibile della band bavarese, capace di accostare con disinvoltura sussulti rock a spunti jazz e citazioni classicheggianti. Un altro esempio di un'ispirazione alquanto versatile è la breve "Song for Ann", dominato in assoluta solitudine dal pianoforte di Miekautsch, mentre lo strumentale "Sorcery" è una cover dal sassofonista americano Charles Lloyd, ancora ficcante sulla chitarra solista, il sax e il piano elettrico, con un grande contributo creativo della sezione ritmica, in particolare del bassista Dave Schratzenstaller. Trascinante e suonato come si deve, è un pezzo che denota l'innegabile talento del gruppo tedesco per una certa fusion pulsante e senza confini. L'ultima traccia del disco, "Kids Hunting", allinea nuovamente l'enfasi del cantante insieme alle variazioni strumentali di sax e chitarra, con la sezione ritmica sempre in grande spolvero. Probabilmente un tale eclettismo stilistico finì per spiazzare il pubblico dell'epoca, e il disco passò inosservato, come la band, che si disperse all'indomani di un ultimo 45 giri nel 1973. Il tastierista entra subito dopo negli Embryo e il batterista Holger Brandt nei Sahara. Varie le ristampe dell'album in circolazione: Living in the Past, Garden of Delights e Planet Vinyl.

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"Nevergreen!"

  Kimio Mizutani   - Nato nel 1947, il chitarrista Kimio Mizutani è una sorta di prezzemolo della scena rock giapponese. Già a metà degli anni Sessanta si segnala tra i fondatori del gruppo Out Cast, un quintetto che con l'unico album inciso (1967) s'inserisce nel cosiddetto "Group Sounds", corrente del pop nipponico devota al beat inglese. Suona quindi con gli Adams (1968-'69) e quindi con Akira Ishikawa & Count Buffalos, ma il suo anno magico è sicuramente il 1971, quando lo strumentista entra in diversi progetti del movimento prog-psichedelico giapponese. Partecipa alla sola incisione dei People, ad esempio, e all'album "Love Will Make a Better You" del gruppo Love Live Life + One. Soprattutto riesce finalmente a realizzare il suo primo e unico disco da solista, "A Path Through Haze"(), pubblicato dalla Polydor. Composto di otto tracce prevalentemente strumentali, è un album che mette in mostra l'indubbio talento del chitarrista, ben supportato da una band eccellente che include il noto tastierista Masahiko Satoh, col quale suona lo stesso anno nel disco "Amalgamation (Kokotsu no Showa Genroku)". L'organo e il synth di Satoh fanno spesso da ideale sponda alla vena di Mizutani, cominciando dalla fascinosa title track, traversata da bagliori cosmici e ipnotiche escursioni chitarristiche. Nell'ispirazione del leader entrano sicuramente la psichedelia americana e artisti come Frank Zappa, ma personalizzati da un'impostazione piuttosto flemmatica, che preferisce il dosaggio dei suoni alle soluzioni più abrasive: bella soprattutto "Sail In The Sky", una solare galoppata fusion con il piano elettrico e i fiati (Etoh Wood Quartette) in primo piano accanto alle note calibrate della chitarra. Fanno eccezione, grazie al timbro più acido dello strumento solista, "One For Janis", vibrante omaggio a Janis Joplin, e anche "A Bottle Of Codeine", mentre decisamente più sperimentale è "Tell Me What You Saw", episodio dissonante e frantumato ad arte dalle percussioni, con piano e chitarra protagonisti di lunghi dialoghi improvvisati. In generale, però, il tono della sequenza è meditativo e avvolgente: su tutti "Turning Point" o la finale "Way Out", unica traccia dove appare una voce femminile (Kayoko Isshu) in una suggestiva atmosfera psichedelica, fino a "Sabbath Day's Sable", che spicca per la presenza di un vero quartetto d'archi. Un album notevole, ma in seguito Mizutani rimane attivo solo dietro le quinte della scena musicale nipponica.

"A Path Through Haze"

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