Archivio Prog

N

N.A.D.M.A. National Health Nektar Neo Neuschwanstein Neutrons

The Nice Nightrider Nimbus Nine Days' Wonder Nirvana Noir Novalis Numi Nuova Idea Nurt

 

 

  N.A.D.M.A.   - Il nome-acronimo di questa originale formazione italiana sta per "Natural Arkestra Da Maya Alta". Esotico fin dalla sigla scelta, il gruppo nasce a Milano nel 1972 su iniziativa del violinista e percussionista Marco Cristofolini, che vanta collaborazioni con Don Cherry e sul finire dei Sessanta aveva suonato con il Quartetto, altra formazione sperimentale, insieme a Davide Mosconi e Gustavo Bonora, presenti anche nel nuovo progetto. In un organico di otto elementi che suonano strumenti acustici (archi e fiati, piano e percussioni) i NADMA si collegano in qualche modo al filone folk etnico e sperimentale di esperienze coeve come gli Aktuala, ma con un'impronta molto più selvaggia e dissonante, e larghi spazi lasciati all'improvvisazione in chiave di free jazz. Registrato alla fine del 1972 per la RCA, l'album "Uno zingaro di Atlante con un fiore a New York" è pubblicato solo nel 1973 e fin dal primo ascolto colpisce per la sua formula aperta e di ardua classificazione, molto rappresentativa del fervore creativo e senza compromessi degli anni Settanta italiani. Soprattutto i due brani più lunghi sono la testimonianza di questo spirito fuori dagli schemi: prima l'apertura di "Homage to Amilcar Cabral" (politico indipendentista della Guinea-Bissau, assassinato nel '73), avvolgente e carica di tensione, con gli archi e i sax stravolti e lancinanti di Gianfranco Pardi e Otto Corrado Davis sullo sfondo frastagliato delle percussioni, voci concitate e suoni ambientali; quindi l'epilogo di "Atlantide-Maya-Veda Rhyton", lenta progressione atmosferica tra flauti, tromba e sax, violoncello (Marino Vismara), il pianoforte dissonante e le percussioni di Cristofolini. Sembra che ogni strumento vada per conto suo, ma il suono assume alla lunga un potere quasi ipnotico nel suo incedere letargico, sottolineato dalla tromba di Pardi. La breve "Chant" è dominata invece dal violino di Bonora e da una voce arcana che sembra arrivare da remote civiltà. "Dabya" è sviluppato s'un violino balbettante, prima di assumere le cadenze virtuosistiche di una danza rituale, affiancato dal sax distorto nell'ultima parte, mentre "Energia" vive su ritmi tribali e ossessivi, tra il piano e i fiati che sembrano cozzare tra loro in un insieme ansiogeno che deflagra nel caos. L'esperienza non ha un seguito e brucia in fretta, come un oggetto misterioso nel calderone sonoro di quegli anni. Davide Mosconi lavora poi nel circuito della musica contemporanea, Bonora nella pittura, e Pardi come designer, ma sono scomparsi da tempo. Il fiatista Otto Corrado e Marino Vismara si uniscono proprio agli Aktuala al tempo de "La terra", mentre il contrabbassista Mino Ceretti è ancora attivo come pittore. Nel 2006 è stato pubblicato anche "Paura", un live risalente al 1973. Ristampe a cura di RCA (cd) e Die Schachtel (vinile).

"Uno zingaro di Atlante con un fiore a New York"

"Energia"

  National Health   - La sigla National Health nasce sulle ceneri di Hatfield and The North, ad opera di Dave Stewart, Phil Miller e la stessa cantante Amanda Parsons nel 1975. Dopo un paio d'anni di attività puramente live, con un organico mutevole che include tra l'altro Bill Bruford e Mont Campbell (Egg), la band si stabilizza col bassista Neil Murray e il batterista Pip Pyle, per realizzare il primo disco omonimo all'inizio del 1978. La musica è un jazz venato di rock, piuttosto corposo, dominato dalle tastiere di Stewart e il synth cerebrale di Alan Gowen, ex-Gilgamesh, che contribuisce fattivamente alla stesura dei pezzi (due portano la sua firma) anche se esce subito dalla band per riformare la vecchia formazione. Il meglio sta nei due episodi più lunghi, "Tenemos Roads" e "Elephants": nel primo, la robusta e ipnotica pulsione strumentale, con organo e chitarra in primo piano, incorpora anche i vocalizzi inconfondibili di Amanda Parsons a richiamare l'esperienza del gruppo-madre. Nel secondo brano, caratterizzato da effetti elettronici e una progressione più cerebrale, col basso in evidenza, la musica dei National Health si avvicina a certi esperimenti di fusion più moderna, ricca di fratture irrorate dall'uso massiccio del sintetizzatore. E' un disco di grande qualità, così come il secondo, "Of Queues and Cures"(), che esce alla fine dello stesso anno. John Greaves (ex-Henry Cow) ha rilevato al basso Neil Murray, e stavolta manca la voce della Parsons. Senza gli effetti speciali di Gowen, il disco ha un'impronta più genuina e perfino melodica nel suo dinamico tessuto strumentale, spesso con l'apporto discreto di una sezione fiati. "The Collapso" e "Dreams Wide Awake" vedono la chitarra di Miller e l'organo di Stewart dare il meglio in passaggi molto frizzanti, mentre in "Binoculars"(firmato da Pyle) il flauto dell'ospite Jimmy Hastings conferisce al suono della band un tratto più melodioso e sognante, e quell'ineffabile dolcezza davvero molto canterburyana. La composizione più ambiziosa è però "Squarer for Maude", prima rarefatta e poi articolata con straordinaria energia e classe pura sulla chitarra solista e il resto degli strumenti (incluso il violoncello e il clarinetto) che disegnano tra inopinati vuoti e belle ripartenze un magistrale arazzo sonoro. Il gruppo torna all'attività concertistica, e solo nel 1982 appare "D.S. al Coda", disco-tributo che ricorda lo scomparso Alan Gowen.

"Of Queues and Cures"

  Nektar   - Gruppo formato nel 1969 ad Amburgo da inglesi espatriati in Germania, i Nektar sono un'espressione molto interessante di un progressive cosiddetto minore che in questo caso può vantare una corposa discografia baciata spesso dal successo. Dopo l'esordio di "Journey to the Centre of the Eye"(1971) è soprattutto il successivo "A Tab In the Ocean" (1972) a mostrare le migliori qualità del suono-Nektar e li rende popolarissimi in Germania: è un prog apertamente sinfonico e a volte maestoso, con qualche venatura di space-rock, come nella lunga suite omonima che resta forse il vertice espressivo del gruppo. Equamente bilanciato tra le trame delle sontuose tastiere di Allan Freeman e la chitarra solista, senza dimenticare una certa psichedelia ("Desolation Valley" ad esempio) e un rock più abrasivo e acido ("Crying In The Dark"), supportato a dovere da una robusta sezione ritmica, il disco è davvero un'opera di ottimo livello, ben accolta da pubblico e critica. Indubbiamente, si sentono a tratti influenze diverse (soprattutto gli Yes), tuttavia la band, all'indomani di "Sound Like This", sa esprimersi ancora con discreta personalità in un album come "Remember the Future" (1973), che tra l'altro vende molto bene negli Stati Uniti. Anche in questo caso il quartetto ha i suoi punti di forza nelle morbide, evocative tastiere di Freeman e nella chitarra sempre duttile di Roye Albrighton. La musica proposta nella lunghissima suite del titolo divisa in due parti è un rock elegante e romantico, privo di forzature, che si dipana in un racconto di argomento fantastico, scorrevole quanto ricca di pregevoli atmosfere: si narra, con toni mai pesanti, di un singolare uccello (Bluebird) che stabilisce un contatto con un ragazzo cieco. Soprattutto nella prima parte, le voci sono spesso corali e soprattutto ben incastonate nella trama tastieristica, con delicati inserti della chitarra solista che nel finale trova spunti più incisivi tra le fitte variazioni organistiche di Freeman. Più frastagliata e ricca di breaks la seconda parte, con lunghi arpeggi di chitarra acustica ma anche una forte presenza del basso di Derek Moore, finché l'atmosfera si fa più malinconica sulla voce e anche la chitarra di Albringhton trova accenti quasi blues di buon effetto. La discografia dei Nektar prosegue in seguito tra alti e bassi fino al 1980, in parte condizionata proprio dal successo americano che li spinge a qualche compromesso commerciale. Dopo lunghi anni di silenzio, la band è tornata quindi all'opera con l'incisione di nuovi dischi e frequenti spettacoli dal vivo. Info in proposito nel sito ufficiale.

"Remember the Future"

  Neo   - Una formazione francese originaria di Sarreguemines, nella Lorena, che si mette insieme nel 1978 e lascia un solo album omonimo () alle cronache musicali della scena transalpina. Realizzato in mille copie autoprodotte nel 1980, si tratta di un disco interamente strumentale e davvero speciale, che sfugge alle classificazioni più facili e per questo intriga subito nelle sue spirali. A suonare nelle sei tracce è un sestetto di ottimo livello, che ha il suo focus nel sax mai banale di Didier Erard, protagonista fin dal bellissimo attacco di "Osibirsk": qui, sulla scia della tiratissima chitarra solista di André Pelerin, che guida le danze in uno schema abilmente sorretto da una corposa sezione ritmica, il sax porta avanti una trama fusion vivace, imprevedibile, tra cambi di tempo e riprese continue, fino a sfumare sul synth evocativo di Romain 'Schlapp' Becker. Un bel biglietto da visita, ma la sequenza è interessante dal principio alla fine. Soprattutto nel brano più esteso, "Sortie de bain", il sestetto esibisce ancora una scioltezza ammirevole alle prese con una sorta di space-rock particolarmente attraente, dove sax, synth e chitarra elettrica sono protagonisti di una lunga galoppata costellata di breaks intriganti che tengono viva l'attenzione, senza un attimo di noia: si apprezza il tono brioso di queste trame sviluppate fino alla saturazione sonora, dove i vari strumentisti hanno modo di farsi valere sempre all'interno di uno schema affiatato, così che spunti individuali di buona fattura e disegno corale convivono efficacemente. Becker si adopera molto al synth per creare una cornice suggestiva alle belle combinazioni dei compagni, e domina la traccia finale, "Plage 2", sorretta anche dal basso di André Paul in un clima molto evocativo. Trascinante anche "Scène de chasse", s'un ritmo battente che poi s'increspa ancora sul gioco incrociato di chitarra e sax, con brevi interludi atmosferici nel mezzo, e una ripresa farcita con abili inserti dei solisti nel finale. La breve "Neoplasme" evoca a tratti i King Crimson più acidi, con la chitarra solista che graffia in uno schema torbido e vagamente sinistro, mentre in "Joiwind" trionfa un clima psichedelico e sospeso di sonorità malate che sembrano girare in tondo. La band resta attiva dal vivo, ma non trova però risposta adeguata nel pubblico fuori dall'ambito regionale e si scioglie dopo qualche mese, anche se il disco avrà buoni riscontri in Giappone a metà degli anni Ottanta. Ristampato in CD dalla Musea, con due bonus-tracks.

"Neo"

  Neuschwanstein   - Una band tedesca, originaria del Saarland, che sul finire dei Settanta si colloca sulle orme del più tipico prog favolistico-romantico e in particolare dei Genesis. L'unico disco dato alle stampe dai Neuschwanstein, che prendono il nome dal famoso castello omonimo, è "Battlement", registrato nell'ottobre 1978 e pubblicato solo all'inizio dell'anno successivo. Il sestetto è imperniato sulle tastiere di Thomas Neuroth e sulla voce solista del francese Frederic Joos, con molto spazio anche per flauto, synth e chitarre acustiche: sin dall'attacco di "Loafer Jack", comunque, è chiaro che siamo di fronte a una vera clonazione del suono-Genesis, riprodotto sia nei dettagli che nell'approccio generale. La voce di Joos è quasi identica a quella di Peter Gabriel, per dirne una, e a tratti sembra davvero di ascoltare una versione persino pedante del gruppo inglese. Detto questo, l'album è una raccolta di sei episodi suonati con molto mestiere e anche discreta verve strumentale, vivace nell'alternanza dei timbri e mai noioso, sia pure nei limiti dell'esercizio di stile. La formula prevede le parti vocali, in inglese, sempre in primo piano, con la parte strumentale che ne asseconda gli umori con grande duttilità. In questo senso si apprezza la bucolica "Ice with Dwale", introdotta da chitarre acustiche e flauto, con bei passaggi di piano e la voce che incide con la consueta abilità. Di buona suggestione anche "Beyond the Bugle", col basso che si ritaglia un ruolo primario e qualche coloritura elettronica di spicco, e la progressione ad effetto della title track: organo, percussioni e synth ancora protagonisti. L'unico strumentale è il brano in coda, "Zärtlicher Abschied", ennesima variazione sul tema di un prog romantico e lussureggiante, con la ritmica molto dinamica, e le soavi armonie di un flauto molto evocativo. Insomma, il disco è molto gradevole e ben suonato, peccato però che arrivi con almeno sei-sette anni di ritardo sul modello originale. La ristampa Musea 1992 include una bonus track.

"Battlement"

  Neutrons   - Band inglese di medio valore che realizza due album a metà dei Settanta. A fondarla nel 1973 sono due ex-Man come Phil Ryan (tastiere) e Will Youatt (basso/chitarra), insieme ad altri musicisti come il batterista John Weathers (Gentle Giant). Nel primo disco, "Black Hole Star" (1974) suona un settetto ben affiatato alle prese con un repertorio piuttosto melodico, ben arrangiato e non privo di ambizioni strumentali. Il gruppo è lontano dal progressive barocco-sinfonico più celebrato, e dà il meglio in episodi aggraziati come "Feel", o la bella "Mermaid and Chips", un gioiellino col pianoforte e le voci in primo piano, fino alla trasognata "Going to India", dove spiccano il canto di Caromay Dixon e il violino di Stuart Gordon. L'apertura di "Living in the World Today" mostra invece il versante rock dei Neutrons, con chitarra elettrica e synth protagonisti, mentre nell'epilogo di "Snow covered eyes" la chitarra è affiancata dal fraseggio efficace dell'organo di Ryan. Notevole è anche "Dangerous Decisions", uno strumentale raffinato che può ricordare i Gentle Giant, ancora col synth in evidenza. Il successivo e ultimo disco del gruppo è "Tales From the Blue Cocoons" (1975), inciso senza Weathers e Gordon. La qualità della proposta rimane discreta: "Come Into My Cave", ad esempio, è un dark-rock sincopato di buona atmosfera, così come "Northern Midnight", cantata da Martin Wallace, scivola via intrigante con un pregevole solo di chitarra di Will Youatt. Al primo disco rimanda "L'hippie Nationale", caratterizzata dalla voce delicata della Dixon e un bell'intreccio di chitarre. Più ammiccanti sono "Take your Further", con Ryan impegnato al piano elettrico, e l'attacco molto tirato di "No More Straights", costruito sul synt e le chitarre ritmiche, mentre Phil Ryan si sbizzarrisce in "Wesh R Blunt or the Dexedrine Dormouse", vivace intermezzo tra pianoforte e organo. La mistura ben confezionata di pop melodico, folk-rock e toni acidi dei Neutrons, comunque, conserva ancora oggi una certa attrattiva. I due dischi sono stati riuniti in CD dalla BGO (2003).

"Tales From the Blue Cocoons"

  The Nice   - Una delle prime formazioni inglesi a immettere elementi classici nel rock (con i Procol Harum), The Nice nascono nel 1967 accompagnando la cantante soul americana P.P. Arnold nella sua tournée nel Regno Unito. Assolto quest'impegno, il quartetto esordisce quindi lo stesso anno su album con "The Thoughts of Emerlist Davjack". Il tastierista Keith Emerson è di certo l'elemento più talentuoso della band, e alterna con uguale disinvoltura arie già famose (come "America" di Bernstein) alle prime contaminazioni con la tradizione classica ("Rondò"), e destreggiandosi abilmente all'organo. Lo assecondano soprattutto il chitarrista David O'List e il bassista/cantante Lee Jackson, specie nel pop psichedelico di "The Cry of Eugene", "The Diamond Hard Apples of the Moon" e della title-track. Il disco è tutt'altro che omogeneo, ma contiene le prime intuizioni che faranno scuola per lo sviluppo del prog classicheggiante. Dopo la cacciata di O'List, travolto dall'uso di stupefacenti, il gruppo prosegue come trio, un organico inedito per l'epoca, e il risultato è il celebrato "Ars Longa Vita Brevis"(1968). Il gruppo inanella nuove tracce di pop melodico sempre brillante ("Happy Freuds"), a volte tinto di jazz ("Little Arabella"), ma ora Emerson attinge a piene mani al repertorio sinfonico. Da una parte il recupero del sottovalutato compositore Sibelius ("Intermezzo from the Karelia Suite") e dall'altra soprattutto il Bach dei concerti brandenburghesi, rivisitato in "Prelude": sei movimenti che affiancano la solennità originale con il virtuosismo impertinente e iconoclasta del rock, tra assoli di batteria, riff elettrici e variazioni per piano e organo. Un disco, comunque sia, di importanza storica per l'affermazione del progressive barocco e sinfonico. A parere di molti è però il successivo "Nice" (1969) il disco più compiuto della band. Tra le parti di studio spicca la cover di "Hang On to a Dream" (da Tim Hardin), una struggente melodia ben cantata da Jackson e infiorettata dal pianoforte squisito di Emerson. "Azrael Revisited" è la trascinante ripresa di un vecchio 45 giri, mentre "Diary of an Empty Day" adatta brillantemente la "Sinfonia spagnola" di Lalo e "For Example" è un bel rock barocco con sincopi di stampo jazz. Le due tracce live sono la sfolgorante "Rondò '69" (nuova versione del vecchio tema) e la lunga "She Belongs to Me", firmata da Bob Dylan, che dimostra il buon piglio scenico dei Nice. Mentre la band si scioglie, dopo un ultimo concerto tenuto a Berlino il 30 Marzo 1970, esco un disco come "Five Bridges Suite" (1970): registrato dal vivo con l'orchestra "Sinfonia of London" nel '69, oltre alla suite omonima scritta su commissione contiene altre riprese di Tchaikovsky e Sibelius. Più avanti viene pubblicato quindi il postumo "Elegy" (1971), composto da quattro brani già noti, di cui due tratti da esibizioni live, mentre l'unica traccia non ancora incisa dal gruppo è "My Back Pages", cover di Bob Dylan. Keith Emerson, intanto, si è già riciclato nel fortunato super-trio E.L.P.

"Nice"

  Nightrider   - Gruppo parigino formato nel 1978, i Nightrider appartengono alla schiera dei gruppi francesi, e sono diversi, che si fanno notare proprio nell'ultimo scorcio degli anni Settanta, quando il rock progressivo ha dato già il meglio. Messi sotto contratto dalla CBS, i sei musicisti realizzano nel Settembre del 1979 l'album d'esordio omonimo (), registrato nei famosi Aquarius Studios di Ginevra, che rimarra anche l'unico della loro breve storia. Si tratta di sette brani in gran parte composti dal tastierista Hervé Guido insieme a Frédéric Rossoni (basso e synth) per la parte musicale, mentre il cantante inglese Bobby Salazar firma le liriche nella sua lingua madre. Le tastiere di Guido, che vanta un background classico, e le due chitarre di John Woolloff e Olivier Marina (ex Skryvania) sono l'asse portante della musica, che solo in parte risente del prog dei maestri, cercando invece un linguaggio più dinamico, senza eccedere in virtuosismi e con diversi spunti melodici, grazie alla buona voce di Salazar: esemplare l'apertura di "A Change in Time", con ritmica spezzata da inserti di piano e corposi innesti della chitarra solista intorno al canto. Sul pianoforte è costruita anche "Blinded", cadenzata a dovere dal basso, con intermezzo sinfonico di synth e una valida prova del cantante. Nella sequenza si colgono anche sapori di heavy prog, ad esempio in "Hard Rock Kid", coi riff potenti della chitarra e la voce che sceglie toni esasperati, anche se il piano di Guido fa sempre da sfondo, mentre un pezzo come "Albatross" è tra i momenti più sofisticati della band: oltre al fraseggio elegante del piano, si fanno notare il basso ovattato di Rossoni e il canto sempre adeguato, con sognanti aperture di tastiere nell'ultima parte. "Juggernaut" parte a spron battuto sulla ritmica, coi graffi della chitarra in appoggio, e si sviluppa s'una vivace parte lirica, con il vocalist sempre sugli scudi insieme, stavolta, all'ottimo batterista Jean Louis Bianchina: un altro momento notevole, chiuso ancora dalla chitarra solista in un crescendo efficace. In generale, la scrittura del gruppo è sempre interessante, a tratti raffinata, come dimostrano anche "Nightrider", altro rock dal ritmo sostenuto, e l'epilogo di "Angel Heights", dove pianoforte e voce si mostrano ancora all'altezza, tra i corposi breaks del duo ritmico, chiudendo nel modo migliore un album di spessore. La critica accolse il gruppo con favore, e il singolo estratto dal disco ("Blinded"/"Juggernaut") ebbe una certa fortuna nelle stazioni radio, oltre che buone vendite nei paesi scandinavi. In seguito però la CBS rifiutò le nuove proposte artistiche della band francese, che dopo alcuni avvicendamenti si sciolse nel 1981. Ristampato in CD da Musea.

"Nightrider"

"A Change in Time"

  Nimbus   - Messa insieme a Salo nel 1971 dai cugini Juha-Pekka e Matti Jokiranta insieme al chitarrista Harri Suilamo, quella dei Nimbus (in precedenza noti come Mafia) è una delle formazioni finlandesi più oscure nel contesto prog dell'epoca, tanto che non esistono ristampe ufficiali del loro unico album antecedenti il 2013. Nonostante questo, "Obus" (), realizzato dal quintetto finnico nel 1974 per l'etichetta Satsanga, è un buon disco, che può riservare qualche sorpresa agli ascoltatori più curiosi. Le sei tracce della sequenza sono dominate da atmosfere evocative, con liriche piuttosto ermetiche cantate in lingua madre, e in generale offrono un repertorio in linea con il prog-rock più romantico degli anni Settanta, depurato per fortuna da stucchevoli manierismi. L'organo di Pekka Rautio domina fin dall'iniziale "Ennustus" (Profezia), affiancato dalla chitarra di Suilamo e soprattutto dal fattivo contributo del violino (Matti Rautio) che dona all'insieme un fascino arcano, tra piccole accelerazioni ritmiche col basso in evidenza e il testo recitato di Pasi Saarelma. Il violino torna in cattedra nell'episodio intitolato "Muutos", con l'organo però sempre protagonista, mentre "Epilogi" è sviluppato s'un pianoforte elegante dal timbro classicheggiante. Particolarmente briosa è una traccia come "Pessimistinen dialogi", con la ritmica tirata dall'inizio alla fine e vivaci inserti chitarristici, mentre "Jälkisäädös" (Testamento) è forse il momento migliore del disco: un pezzo bilanciato a dovere tra il suono atmosferico dell'organo e i ricami chitarristici di Suilamo, con vivaci parti vocali e improvvise sterzate ritmiche del batterista Matti Jokiranta, oltre a un breve inserto di piano elettrico. Discreta anche la chiusura dell'album, "Yksinäinen purjehtija" (Navigatore solitario), con le tastiere eclettiche di Rautio e la chitarra solista che si spartiscono equamente il comando delle operazioni. Per tirare le somme, i Nimbus non sono forse i primi della classe, ma nell'insieme la loro musica rimane piuttosto gradevole, spesso affascinante, con qualche ingenuità e piccole sbavature che non mutano il giudizio di fondo. Qualcuno forse potrà sentirsi disturbato dal suono peculiare della lingua finnica, tuttavia "Obus", a mio avviso, resta un titolo consigliato agli appassionati prog sempre a caccia di rarità spesso condannate, come in questo caso, ad un lungo e ingiusto oblio. La ristampa a cura della Rocket Records include anche due bonus-tracks eccellenti, in particolare il lungo strumentale "Aamumaa".

"Obus"

  Nine Days' Wonder   - Eccentrica band tedesca formata a Mannheim nel 1966 dal cantante Walter Seyffer. Il quintetto che nel 1971 realizza l'album di debutto omonimo () è una vera multinazionale: irlandese il fiatista John Earle, inglese il batterista Martin Roscoe e austriaco il bassista Karl Mutschlechner, mentre l'altro tedesco oltre a Seyffer è Rolf Henning (chitarra e piano). Comunque sia, il disco è un gioiello di prog trasversale che fonde genialmente improvvisazione pura, estroso umorismo e richiami a Canterbury e Frank Zappa tra gli altri. In una scaletta davvero esplosiva, "Apple Tree" abbina fraseggi jazz ad una voce solista sopra le righe, con chitarra e basso che lasciano il segno, mentre la breve "Moss Had Come" è all'insegna del sax di Earle, ma il potenziale sonoro della band si esprime al meglio nelle due lunghe suites in apertura e in coda. Nella prima spiccano la voce filtrata di Seyffer e la chitarra lancinante di Henning ("Puppet Dance"), ma c'è spazio anche per la viola da gamba e soprattutto per il sax, oltre che per buffi inserti di finte voci femminili ("Morning Spirit"). Nell'altra suite, aperta dalla trascinante "Drag Dilemma", si apprezza il flauto traverso di John Earle, ma anche solari intermezzi con percussioni in evidenza e le versatili parti vocali di un Seyffer in grande spolvero. Subito dopo il gruppo va in pezzi: Earle entra nei Gnidrolog, mentre Seyffer forma i Medusa, che dopo un solo singolo nel 1972 si trasformano nella nuova edizione dei Nine Days' Wonder. Esce così "We Never Lost Control" (1973), diverso ma ugualmente brillante rispetto all'esordio: è un esempio di Krautrock colorato e vibrante, con una voce camaleontica e maggiore spazio per le tastiere di Freddie Münster, impegnato anche al sax. Bello l'attacco di "Days In Bright Light", dal ritmo irregolare scandito da organo e basso, e molto romantica "Fischerman's Dream", con il piano classicheggiante e il mellotron in evidenza insieme alla chitarra solista. L'organo sale in cattedra in "The Great Game", dal tema ossessivo integrato dalla chitarra, e nella finale "Armaranda", mentre il sax domina la tumultuosa "We Grasp the Naked Meat". Di rilievo anche la prova del bassista Bundt e del batterista Karl-Heinz Weiler. Il successivo "Only the Dancers", uscito nel 1975 e registrato da un rinnovato quartetto, sposta il tiro verso un rock orientato alla canzone, solo a tratti interessante. David Jackson dei VDGG suona il flauto nella title-track e nella bella "It's Not My Fault", ma la sequenza è caratterizzata soprattutto dalla vivace chitarra di Henning: ad esempio in "Frustration" o "The Way I'm Living", dei rock'n'roll melodici piuttosto pesanti. Più intriganti l'iniziale "Long Distance Line", ben cantata da Seyffer sul tappeto di chitarra acustica e pianoforte, e la coda sinfonica di "Moment", un misurato crescendo con tanto di mellotron. L'ultimo atto è "Sonnet to Billy Frost" (1976), quasi un concept-album di gusto molto britannico. Seyffer, rinnovato quasi totalmente il gruppo, spadroneggia con la sua vocalità istrionica tra sprazzi rock ("Turn and Go On") e languido pop melodico ("Jamie" e la stessa title-track), con chitarre e pianoforte in primo piano. E' un album che scorre con discreta verve, ma ormai lontano dal formidabile avant-prog degli inizi. Ristampe Bacillus e CMP. Altre notizie nel sito ufficiale.

"Nine Days' Wonder"

  Nirvana   - Da non confondere con l'omonima band americana di Kurt Cobain, i Nirvana inglesi sono una creatura di Alex Spyropoulos (tastiere) e del cantante/chitarrista irlandese Patrick Campbell-Lyons. Messa insieme una band nel 1967, esordiscono con il pop psichedelico del concept-album "The Story of Simon Simopath" (1968), pieno di melodie di gusto beatlesiano come "Pentecost Hotel". Lo stesso anno esce quindi "All of Us", ancora per la Island: il disco raccoglie anche alcuni 45 giri già pubblicati, tra cui "Rainbow Chaser", episodio con arrangiamenti ad effetto che ottiene buone vendite. Il terzo album del duo è invece "To Markos III" (1969), pubblicato prima in America che in patria: il titolo è un omaggio allo zio greco di Spyropoulos, che finanziò parte del progetto. E' ancora una sequenza di dieci brani molto melodici, come l'iniziale "The world is cold without you" o "Talk to my room", con delicate armonie vocali e corposi arrangiamenti orchestrali, ad esempio "Aline, cherie". "Black Flower" regala un bel solo chitarristico nel finale, ma il disco non offre grandi sorprese, pur se gradevole. A questo punto Campbell-Lyons, sciolto il sodalizio con Spyropoulos, inizia a produrre nuovi artisti per la Vertigo, e per la stessa etichetta realizza a nome Nirvana un album come "Local Anaesthetic" (1971): due soli episodi molto lunghi, nei quali il cantante è assistito dal fiatista Mel Collins e membri dei Jade Warrior. Sin dalle prime note di "Modus operandi" lo stacco dal passato è netto: suoni d'organo e sax distorti preludono a una miscellanea un po' frammentaria di rock'n'roll, umori country-folk e qualche effetto elettronico, con voci sopra le righe, batteria, chitarra solista e piano in evidenza. "Home" è invece una suite in cinque parti, assemblata con maggior rigore. Dopo l'intro percussiva, Campbell-Lyons recupera il suo cantato più tipico, attraverso atmosfere più fluide che compendiano ballate blues per pianoforte, morbido chitarrismo psichedelico su tappeti di mellotron, voci corali molto "sixties". Il disco è interessante, ma si nota l'assenza di una chiara direzione stilistica. Segue "Songs of Love and Praise" (1972), con nuove versioni di "Rainbow chaser" e "Pentecost hotel" e pezzi inediti. Torna a prevalere un repertorio di pop-songs orchestrali, piuttosto omogeneo nei risultati: soprattutto "Please believe me", "Lord up above" o "Will there be me", col flauto in primo piano. "She's lost it" è invece un nervoso rock-blues per piano, chitarra acustica e percussioni, mentre nella chiusura di "Stadium" suono orchestrale e pianismo jazz si fondono in una progressione efficace, coi fiati protagonisti. Successivamente, Campbell-Lyons firma altri dischi a proprio nome, ma in periodiche reunions con Spyropoulos rispolvera vecchio materiale inedito.

"Local Anaesthetic"

  Noir   - Quartetto inglese piuttosto misterioso, nato con il nome The Power alla fine dei Sessanta, e responsabile di un solo album. Le notizie su questa formazione "all black" (la prima nel rock britannico) sono poche: il batterista e cantante Barry Ford ha suonato in seguito in gruppi minori come Clancy e Merger, ma il più noto è il chitarrista Gordon Hunte, nativo della Guyana e attivo in bands come Gonzalez e Myd Nit Sun, oltre che collaboratore della nota cantante Sade. L'unico disco pubblicato dai Noir è "We Had To Let You Have It" (): registrato nel Settembre 1970 e realizzato solo l'anno seguente, a gruppo già sciolto, passò del tutto inosservato e solo recenti ristampe come quella Breathless l'hanno ripescato dall'oblio. Si tratta di un lavoro insolito ma di buon livello, composto di otto tracce in bilico tra morbida psichedelia, soul, blues e innesti rock-prog piuttosto personali. La cifra dominante della musica è il caldo suono dell'organo di Tony Cole, base pressoché costante per le voci di Ford e Hunte, a cominciare dalla sanguigna "Hard Labour", tra brusche accelerazioni ritmiche e pause atmosferiche, e passando per la suggestiva "Rain", quasi un gospel dalle cadenze ipnotiche, con le belle voci in primo piano insieme ad un piano dalle inflessioni blues. La lunga "The System" nasce s'un riff chitarristico e procede sincopata e irregolare, con pianoforte e percussioni in evidenza, oltre al canto dai vibranti accenti soul: Hunte si dimostra qui un ottimo solista, e il brano riassume bene l'anima multiforme del gruppo. Trascinante anche "Beggar Man", sorta di soul-rock dalle cadenze tribali, dettate dal piano insieme al refrain vocale. In altri episodi l'anima nera del quartetto si mescola ad un certo Latin Rock: ad esempio "How Long", dal ritmo tiratissimo, il fraseggio acido dell'organo e la chitarra pungente di rincalzo, oppure la mordente cover in chiave funk-rock di "Indian Rope Man", fino a "Ju Ju Man", dominata dalla chitarra "hendrixiana" di Hunte. Insomma, per quanto lontano dal prog più canonico e celebrato, l'album dei Noir si segnala come un documento molto rappresentativo di una stagione musicale in pieno fermento, quando stili e tradizioni diverse confluivano in un nuovo linguaggio rock senza confini, e merita senz'altro l'ascolto.

"We Had To Let You Have It"

  Novalis   - Da Amburgo, i Novalis sono uno dei gruppi più noti del progressive sinfonico tedesco. Romantici almeno quanto il poeta cui si richiamano, si formano nel 1971 e arrivano al debutto discografico nel 1973 con "Banished bridge", senza apprezzabili riconoscimenti. Migliori consensi ottiene invece "Novalis" (1975), discreta seconda prova nella quale il rinnovato quintetto (chitarra/tastiere, tastiere, chitarra, basso/voce e batteria), offre un rock imperniato sulle ricche tastiere di Lutz Rahn, i fraseggi eleganti di Detlef Job alla chitarra solista, e in generale un'atmosfera sognante sempre gradevole. Notevole l'apporto del synth nell'iniziale "Sonnengeflet", ma le cose migliori vengono dai brani più estesi, come "Wer schmetterlinge lachen hort": cambi di tempo sul synth, l'organo e il basso pulsante (Heino Schunzel), intervallati da scenari rarefatti e dominati da voci assorte di buona suggestione. Lo stile vira verso un tipico space-rock in "Dronsz", sempre sorretto da una ritmica pulsante. "Es färbte sich die Wiese grün" (posta in chiusura) recupera poi un testo originale (1798) del nume Novalis in persona, al centro di lunghe e cerebrali combinazioni tra chitarra e tastiere, e "Impressionen" riadatta il tema della Quinta sinfonia di Anton Bruckner. Un bel disco, insomma, ma è solo il successivo "Sommerabend" (1976) che impone la band nell'elite della scena tedesca e consacra uno stile. L'abbandono di Karges non modifica più di tanto gli equilibri e così il quartetto insiste sulle sue qualità migliori, affinate da un maggiore amalgama tra le parti. Fra i tre lunghi brani in scaletta spicca la suite conclusiva che intitola il disco, dove i Novalis portano a estrema maturazione certe sonorità di space-rock romantico e contemplativo, con qualche suggestione degli stessi Pink Floyd, costellato da pregevoli incisi chitarristici nella cornice morbida e ovattata del basso di Schunzel, le tastiere liquide e le delicate liriche in lingua tedesca. Nella trasognata "Wunderschätze" torna non a caso un testo del loro poeta preferito, cantato a due voci alternate, a suggerire colori e sfumature peculiari. Il buon momento della band tedesca dura ancora un paio di album, come "Brandung" (1977) e quindi "Vielleicht bist Du ein Clown?" (1978), contrassegnati anche dal nuovo cantante e flautista Fred Muehlboeck. Poi dischi via via meno brillanti finché dei Novalis si perdono le tracce a metà degli anni Ottanta. Ristampe a cura di Brain e Repertoire.

"Sommerabend"

  Numi   - Poca gloria per i Numi, una formazione pavese formatasi nel 1967 dall'unione di musicisti già impegnati in alcuni gruppi beat locali, che realizza l'album "Alpha Ralpha Boulevard" nel 1971 su etichetta Polaris. Al disco contribuisce il cantautore Guido Bolzoni, un estroso personaggio noto anche per le sue collaborazioni eccellenti (Mina su tutti) e per un album solista come "Happening", pubblicato nel 1969 con il nome abbreviato in Guido. In questo caso, Bolzoni firma in solitudine tutti i brani del disco, indirizzando decisamente la musica del quintetto (chitarra/basso, chitarra/voce, chitarra, tastiere e batteria) verso tranquille ballate di morbido pop, con tracce di blues e qualche richiamo al beat del decennio precedente: "325" ad esempio. Con lunghe parti cantate e pochi intermezzi strumentali delle due chitarre da ricordare, la musica dei Numi scorre dunque piuttosto lineare, senza grandi sorprese. Restano piuttosto defilate, oltretutto, le tastiere di Beppe Tiranzoni, a parte qualche momento più psichedelico, come "Luce e gloria per te", con il fattivo apporto del basso di Paolo Buccelli accanto all'organo. Dei sette brani che compongono il disco, conditi da una morbida vena melodica abbastanza gradevole, in particolare "San Miguel" con l'organo di spalla ai buoni riff chitarristici, il solo episodio strumentale in odore di prog, con tanto di flauto alla Jan Anderson, è il breve "Furma materiae progredientis", ma oltre a mancare di sviluppo adeguato rimane scollegato rispetto al resto della sequenza. I testi, romantici e sentimentali, interpretati con vena alterna da Roberto Tava (ma la lunga title-track è cantata dallo stesso Bolzoni) sono anche interessanti, però in buona sostanza il progressive vero e proprio, che si affermerà in Italia di lì a poco, non abita ancora qui e i Numi escono rapidamente di scena nel 1972, quando il batterista Furio Sollazzi entra nel gruppo di Lucio Dalla. Un'effimera reunion del 1975, con l'organico parzialmente rinnovato, ha prodotto poi una lunga suite in stile molto più eclettico (tra hard rock, pop sinfonico e covers) registrata dal vivo a Pavia e pubblicata soltanto nel 1993 con il titolo "Storia di Zero".

"Alpha Ralpha Boulevard"

  Nuova Idea   - I genovesi Nuova Idea sono la classica dimostrazione che ad un gruppo 'progressive' serve tempo per trovare la sua strada ed un linguaggio davvero personale. Le radici deIla band affondano negli anni Sessanta, con Paolo Siani (batteria) ed Enrico Casagni (basso) che suonano nei Plep, poi ribattezzati J. Plep, autori di un singolo nel 1969. Solo nel 1970 si opta per la nuova sigla e il quintetto è scritturato quindi dalla Ariston che pubblica il primo album "In the beginning" (1971): la musica però è ancora in bilico tra canzone pop e rock avanzato. Alla lunga "Come, come, come...", che occupa tutto il primo lato e mostra una genuina vena prog-psichedelica, con buone combinazioni tra la chitarra solista di Marco Zoccheddu e l'organo di Giorgio Usai, seguono quattro brani decisamente più melodici e meno interessanti, con soluzioni che rimandano fin troppo ai concittadini New Trolls. I cinque (due chitarre, basso, tastiere, batteria) fanno però un deciso passo avanti con "Mr. E. Jones" (1972), inciso senza Zoccheddu, che forma gli Osage Tribe, e col nuovo chitarrista Antonio Gabelli. E' un album-concept prodotto da Gianfranco Reverberi, basato sulla tremenda giornata-tipo di un comune impiegato. La musica ora acquista spessore e scivola piacevolmente tra spunti di robusto rock melodico, come nell'incisiva title track, e momenti strumentali più elaborati, come "Un'ora del tuo tempo" e soprattutto "Illusione da poco", senza perdere di vista la vivacità degli impasti vocali che caratterizza tutte le band genovesi. Infine, nel 1973, esce "Clowns"(): con questo album, ancora prodotto da Reverberi e inciso col chitarrista e cantante Ricky Belloni (ex - Il Pacco), i Nuova Idea si pongono nella scia dei nomi più celebrati del rock progressivo italiano. Se i testi seguono ancora una trama "concept", la musica è un dinamico e compatto hard progressive centrato sulla dimensione eclettica delle tastiere di Giorgio Usai (organo, piano e synth) e su brillanti spunti chitarristici, con incisive parti cantate: Belloni, in particolare, sfodera un vibrato decisamente originale che contribuisce non poco al buon risultato complessivo, ma tutto il quintetto sembra cresciuto e più convinto dei propri mezzi. A parte la chiusura di "Una vita nuova", con il suo lento crescendo sinfonico, il meglio sta nei brani più estesi. Ad esempio "Un'isola", che parte in sordina e procede poi con ficcanti accelerazioni guidate da organo e synth, e quindi la più complessa "Clown": oltre all'utilizzo efficace di un coro di bambini, sono i cambi di tempo e le sofisticate parti strumentali, tra marcette circensi e inserti di tromba e violino, a dimostrare l'ottimo livello raggiunto dai cinque. Purtroppo, anche per il mancato riscontro commerciale del disco, è l'ultimo capitolo della band. Subito dopo lo scioglimento, Belloni e Siani formano il gruppo Track che realizza l'album "Track Rock" nel 1974. In seguito, il chitarrista entra stabilmente nei New Trolls, come pure Giorgio Usai per un periodo più breve.

"Clowns"

  Nurt   - Originari di Wrocław, nella Bassa Slesia, i polacchi Nurt (cioè "corrente") si formano nel 1971 da una costola della band Romuald i Roman, dove militavano il cantante-chitarrista Roman Runowicz e il bassista-tastierista Kazimierz Cwynar. Dopo aver raccolto elogi e premi al Festival di Kalisz del 1972, e poi a quello di Jazz sull'Oder, il gruppo ottiene finalmente di poter registrare lo stesso anno il suo album d'esordio omonimo (), pubblicato in realtà nel 1973 dall'etichetta Polskie Nagrania Muza. Si tratta di nove brani, la maggior parte dei quali intorno ai tre-quattro minuti, che tradiscono l'impostazione in stile hard rock del quartetto polacco, basato più sulle due chitarre che sulle tastiere, solo sporadiche. La registrazione un po' rudimentale favorisce l'apprezzamento dei momenti più sanguigni della raccolta: dall'iniziale e melodica "Kto ma dziś czas" (cioè "chi ha tempo oggi"), a "Gdyby przebaczac mogli wszyscy", dominati dalla vivace chitarra solista di Alek Mrożek e dalla voce di Runowicz, compositore con Mrożek di quasi tutti i pezzi. Tuttavia, ad un ascolto attento, l'album riserva più di una sorpresa: ad esempio "Będziesz panią w moim piekle", bella e ipnotica ballata, ma soprattutto "Synowie nocy", dove il vibrante attacco chitarristico non lascia affatto presagire il sorprendente raga rock che segue, di grande effetto, con Mrożek che stavolta canta e suona anche il sitar, ben affiancato dal flauto dell'ospite Włodzimierz Krakus. Quest'ultimo compare anche in "Morze ognia" ("mare di fuoco"), tra riff di chitarra e basso, e soprattutto in "Parter na klaustrofobię", un grintoso rock sincopato, fin quando il flauto prende il comando e insieme al basso di Cwynar, tra vocalizzi corali e spazi improvvisativi, conduce all'epilogo. È un brano interessante almeno quanto la lunga traccia finale, "Syn strachu" ("figlio della paura"), che supera i nove minuti. Quasi in forma di minisuite, la composizione si sposta inizialmente verso il jazz-rock, con la tromba esasperata di Tomasz Stańko che apre le danze, prima del cantato trasognato sugli arpeggi di chitarra e basso, e quindi torna in primo piano nella parte centrale con picchi sperimentali e psichedelici, mentre il finale si placa sulla voce. Nel suo schema aperto, imprevedibile, è un altro episodio singolare di un disco che alla fine offre diversi sapori intriganti dietro l'impressione di un basico rock chitarristico che prevale al primo ascolto, e dunque si guadagna un posto di rilievo nella scena polacca dei Settanta. Tra lunghe pause, scioglimenti e ritorni, i Nurt restano attivi soprattutto dal vivo, finché nel 1995 è stato pubblicato l'album "Motyle i kloszardzi", con il solo Mrożek dei membri fondatori. Ristampe in CD di Kameleon e in vinile di Polskie Nagrania Muza.

"Nurt"




Read more about: con and che
The Fastest FTP on the planet Go FTP FREE