Archivio Prog

SI-SZ

Simon Luca Sindelfingen Síntesis Skin Alley Sky Alan Sorrenti Solution Speed Limit

Sperrmüll Spheroe Spirale Spirogyra Spontaneous Combustion Spring Steamhammer Steel Mill Still Life

Stone The Crows Strawbs String Driven Thing Subversion Symphonic Slam Syrius

Torna a S-SH

 

  Simon Luca   - Autore e interprete di buon livello, il piacentino Simon Luca (nome d'arte di Alberto Favata, classe 1948) esordisce artisticamente come Alberto Oro nel Beat di fine anni Sessanta. Cambiato poi il nome, mostra di avere tutte le qualità per sfondare come il Joe Cocker italiano, molto prima di Zucchero. Voce ruvida e potente, e una discreta facilità a passare dalla ballata sentimentale in stile blues alla rock-song dal riff incisivo: queste le principali caratteristiche di "Per proteggere l'enorme Maria" (1972), seconda e più matura prova del cantante dopo il precedente "Da tremila anni" (1971), passato sotto silenzio. La partecipazione al secondo disco dei più validi strumentisti del giro milanese (da Ricky Belloni a Lucio Fabbri e Fabio Treves) garantisce un tessuto musicale corposo, con le chitarre in primo piano, e soprattutto un suono da gruppo aperto di buona presa. Tra i pezzi spiccano l'iniziale "Cuore nero", supportata dal coro femminile, quindi "Ridammi la mia anima" e la tiratissima "Mangia con me il tuo pane", un gran pezzo con la chitarra di Ricky Belloni in primo piano insieme all'armonica. Bello anche il crescendo di "Sono un uomo", vagamente battistiana, con il controcanto femminile. La Maria evocata nella title-track venne all'epoca considerata un allusivo omaggio alla marijuana, tanto da insospettire la censura, ma l'artista ha sempre smentito questa interpretazione. È vero, piuttosto, che nel suo gruppo chiamato appunto "L'Enorme Maria", sono transitati personaggi che hanno poi conosciuto una certa notorietà nel pop-rock italiano: oltre a quelli succitati, vanno ricordati tra gli altri Alberto Camerini, Eugenio Finardi e Marco Ferradini, oltre a Roberto Colombo, Donatella Bardi e Walter Calloni. Le discrete vendite e l'intensa attività live, sembrano il preludio alla consacrazione definitiva con il terzo album, "E la mia mente?" (), pubblicato nel 1973 ancora dalla Ariston. La trama concept, articolata in segmenti anche brevissimi, racconta di un uomo che dopo un incidente automobilistico riconsidera in una nuova luce la sua vita, ma soprattutto è una scelta che garantisce una maggiore unità sonora al disco. Se le chitarre sono ancora protagoniste, ad esempio in "E poi la luce" o nel graffiante rock-blues di "Corsa in macchina", con la voce in grande spolvero, la sequenza trova melodie accattivanti come "Finalmente apro gli occhi", con l'organo di sfondo, oltre a inedite parentesi quasi psichedeliche: è il caso di "Dialogo con l'inconscio" e "Dialogo con la morte". Ci sono episodi in chiave acustica e dominati dalle voci corali ("Cercare di prendere il cielo"), con l'apporto consistente di Flavia Baldassarri, e naturalmente efficaci rock-songs dove il leader fa valere il suo grintoso timbro vocale: dalla mordente "Risveglio" fino alla chiusura di "Rinascita", uno splendido crescendo che vibra sulle voci, le tastiere e la chitarra solista di Claudio Bazzari. È senza dubbio il miglior contributo di Simon Luca al nuovo prog-rock italiano, ma dopo che il servizio militare lo ha tolto dal giro la sua carriera si chiude con una serie di singoli, tra i quali merita una citazione almeno "Per favore basta" (1975). In seguito, inizia comunque una prolifica carriera di produttore e autore per altri artisti (Mina, Astor Piazzolla, Bruno Lauzi, Marco Ferradini, Dik Dik tra gli altri), compone diverse colonne sonore per cinema e tivù, oltre a musiche pubblicitarie. Altre informazioni sulla Pagina Facebook. Ristampe in CD a cura di Vinyl Magic.

"E la mia mente?"

  Sindelfingen   - Una dimenticata band inglese originaria di Rochester, nel Kent, dove prende le mosse nel 1969. Il fondatore è Richard Manktelow (voce e chitarra), che alla fine guida un quartetto comprendente Roger Wood (glockenspiel e oscillatori), Roger Thorn (batteria) e Mark Letley (basso, voce). Alla fine del 1972 il gruppo registra un album autoprodotto in sole 99 copie per non pagare le imposte previste dalle 100 copie in su: il disco viene intitolato "’Odgipig", che è una storpiatura dal dialetto di Chatham per "riccio", e viene pubblicato solo nel 1973. Ascoltato oggi è una sequenza che risente della sua genesi un po' amatoriale, ma considerando che si tratta di una registrazione a due tracce e senza effetti di post-produzione, il risultato sonoro non è malvagio come in altri casi, a parte forse il volume un po' debole. Nelle sei tracce il disco mostra uno stile interessante ma frammentario, con una leggera patina jazz e richiami al rock barocco dell'epoca nei brani più lunghi, nonostante la mancanza di tastiere: ad esempio "Today & Tomorrow", dove si ascolta un flauto dolce che convive con arpeggi di chitarra in un clima piuttosto rarefatto, interrotto da sincopi di batteria e voci anche corali, secondo un andamento alterno e il glockenspiel di Wood in evidenza. Anche la voce solista molto espressiva di Manktelow segue gli alti e bassi del suono, passando da toni sussurrati a improvvisi picchi di intensità. "Perpetual Motion" ha caratteristiche simili: oltre al fatto che entrambi i pezzi parlano del tempo che passa e dell'invecchiare, le chitarre acustiche sono la cifra dominante insieme al glockenspiel, ma il basso qui è più incisivo nel sottolineare i robusti cambi di tempo, finché tutto si placa sul flauto. "Three Ladies" è l'unica traccia dell'album con uno stile rock più marcato e un ritmo decisamente sostenuto: infatti si ascolta anche la chitarra elettrica, tra buone parti di basso, una voce solista più briosa e intriganti inserti di un glockenspiel quasi onnipresente. La title-track, con voce e chitarra acustica, è quella che può ricordare lo stile folk-rock dei Jehtro Tull, ma sono assonanze di superficie. L'iniziale "Song For Dawn" è una semplice dedica, mentre "Mark's Bach" è un breve omaggio arpeggiato di Letley al grande compositore tedesco. Il gruppo si esibisce dal vivo in poche date locali e infine si scioglie nel 1974. Esistono ristampe del disco che includono la bonus-track "The Princess And The Predator", mentre altre abbinano l'album originale a "Triangle", cioè materiale live risalente al 1975, con pezzi inediti. La ristampa in CD Background del 1992 presenta una diversa copertina. Richard Manktelow ha raccontato con molti dettagli sia il disco che il gruppo nel suo blog.

"’Odgipig"

"Three Ladies"

  Síntesis   - Gruppo cubano fondato a L'Avana intorno al 1976, i Sintesis (anche conosciuti come Grupo Síntesis) esordiscono nel 1978 con l'album "En busca de una nueva flor" (), senz'altro il più noto nel circuito progressivo. Nell'album spiccano le personalità del cantante e chitarrista Carlos Alfonso, già protagonista nel gruppo Tema IV, e del chitarrista-arrangiatore Mike Porcel: il tentativo, dichiarato fin dal nome, è quello di mescolare elementi di rock sinfonico con le sonorità della musica cubana più melodica. Oltre al parco-tastiere di José María Vitier, un ruolo fondamentale hanno le voci, in particolare quella femminile di Ele Valdés, che arricchisce di colore le composizioni. La lunga apertura di "Nueve ejemplares...No tan raros" fissa già i canoni dell'operazione: un'atmosfera magica cullata da piano e synth, nella quale s'inseriscono parti vocali anche corali, oltre a piccoli breaks ritmici che riannodano i fili del morbido tema dominante. E' uno dei picchi del disco. Intrigante il mood di "Somos la flor", che procede lenta sulle note dell'organo con inserti di chitarra elettrica, finché il canto di Ele Valdés balza in primo piano, supportato dal coro. L'anima più romantica del gruppo rifulge nella più breve "Ven a encontrarnos", con la bella voce femminile sorretta da un adeguato arrangiamento orchestrale, mentre "Primera noche", introdotta da suadenti giochi vocali e synth, decolla tra cambi di tempo e splendide armonie vocali sostenute dal pianoforte di Vitier, in un seducente alternarsi di pause e riprese. Se "Poema" mette in musica un testo lirico del grande Pablo Neruda, ancora giovandosi di voci orchestrate con rara eleganza, la chiusura della title-track recupera suggestioni sinfoniche di scuola inglese: una batteria marziale in apertura è seguita dal cantato maschile e quindi da un bel finale in crescendo sulle tastiere (piano, synth, organo). A parte qualche ingenuità, il fascino dell'insieme poggia sull'equilibrio di una scrittura che sa legare tradizione e rock sinfonico, senza forzature, con uno spiccato gusto melodico. Il successivo "Aquí Estamos" (1981), registrato senza Vitier e Porcel, è ancora di buon livello. Pur accentuando l'aspetto melodico più accattivante ("Nubes veloces" o "Los cantares no se inventan"), conserva tracce consistenti di prog nella lunga "Elogios de la danza", sorta di minisuite in due parti, e in "Variaciones sobre un zapateo", che innesta abilmente cadenze e voci folk nello schema guidato dell'organo. Non mancano spunti "fusion", come nella briosa title-track strumentale, col piano e la chitarra solista di Pablo Menendez in evidenza. In seguito, sempre guidati da Carlos Alfonso e Ele Valdés, i Síntesis recuperano con successo le radici musicali cubane, facendo valere qualità tecniche e compositive sempre stimolanti: si segnalano dischi come "Ancestros" (1987) e "Orishas" (1997). Ristampe Sol & Deneb e Qbadisc Records.

"En busca de una nueva flor"

  Skin Alley   - Formazione minore della scena britannica, i londinesi Skin Alley vanno tuttavia menzionati almeno per i primi due dischi, che mostrano spunti di sicuro interesse. Formati nel 1968, realizzano un primo album omonimo l'anno seguente per la CBS. Il quartetto inglese, con parti vocali mediamente apprezzabili, ha i suoi punti di forza nel tastierista Krzysztof Juskiewicz e nel fiatista Bob James, e sviluppa un progressive piuttosto estroso e versatile, con lunghe sequenze dominate dall'organo, spesso rinforzato dal mellotron, con una buona sezione ritmica di stampo jazz sugli scudi, ma anche corposi interventi al sax di James: soprattutto nel lungo strumentale "Marsha" e poi in "All Alone". Altrove, invece, spiccano belle combinazioni di flauto e chitarra: è il caso di "Living in Sin", soprattutto, che alla fine ricorda da vicino esperimenti coevi come quelli dei Colosseum. Nonostante il discreto livello dell'insieme, e la buona caratura tecnica dei musicisti, manca forse alla sequenza l'episodio davvero memorabile, e il meglio del disco sta in certe gradevoli divagazioni jazzate di flauto e pianoforte, come avviene nella più morbida parentesi di "Night Time". L'anno seguente, dopo un 45 giri, gli Skin Alley realizzano quindi "To Pagham and Beyond" (1970), che rimane probabilmente il loro album più riuscito. L'attacco di "Big Brother is Watching you", un discreto rock-blues cadenzato dal basso e con tanto di armonica e intermezzi fuori schema, denota subito maggiore convinzione e un migliore affiatamento. Notevole anche il tema aperto e contaminato di "Take Me To your Leader's Daughter", sorta di jazz-rock col flauto brillante di James ancora protagonista sul tappeto percussivo, il basso creativo di Thomas Crimble e lunghe improvvisazioni di piano e sax soprano: un episodio rimarchevole, con qualche sapore del Canterbury Sound. Altri pezzi da segnalare nella sequenza sono poi la cadenzata "Queen of Bad Intentions", aperta sulle cupe note dell'organo e intessuta di godibili inserti chitarristici, e quindi "Sweaty Betty", segnata da picchi di free-jazz esasperato, tra pause e ripartenze, con il basso sempre vivace insieme ai fiati e all'organo. Il cantante e bassista Nick Graham (ex Atomic Rooster), subentra a metà disco a Crimble, e canta con bella verve la cover di "Walking in the Park", di Graham Bond. È senz'altro un disco di qualità, ma il successo del debutto non si ripete e la CBS non rinnova il contratto. Passato così all'etichetta Transatlantic, il gruppo realizza altri due album prima dello scioglimento, con il nuovo batterista Tony Knight: si tratta di "Two Quid Deal" (1972) e quindi "Skintight" (1973). Varie le ristampe, anche in vinile: Akarma i primi due, Stax il terzo e quarto.

"To Pagham and Beyond"

  Sky   - All'origine del gruppo Sky c'è il chitarrista classico John Williams, nato in Australia da padre inglese nel 1941, rinomato interprete di musica colta già negli anni Sessanta e allievo del grande Andres Segovia. Versatile e curioso di esperienze diverse, Williams entra poi in contatto con Francis Monkman (tastierista già fondatore dei Curved Air) e il bassista Herbie Flowers, coi quali forma gli Sky nel 1978: ne fanno parte anche Tristan Frey (percussioni) e Kevin Peek (chitarre). Nel 1979 il quintetto registra il primo album omonimo su etichetta Ariola e riscuote subito grande successo in Inghilterra. Tra i sei brani, tutti strumentali, un paio sono riletture di autori classici, come la tranquilla "Gymnopedie No.1" (da Satie), ma a colpire è l'estrema pulizia del suono, l'equilibrio e la voglia di non strafare: ad esempio nella cristallina "Carillon", calibrata esecuzione con la chitarra acustica di Williams affiancata gradualmente da pianoforte e chitarra elettrica. Più mosse sono le composizioni firmate da Monkman: "Cannonball" e soprattutto la suite finale "Where the Opposites Meet", quasi venti minuti nei quali il quintetto esplora sonorità più ariose, in una chiave fusion accattivante. La tendenza a fondere musica classica e nuove sonorità senza gli eccessi di molto prog si conferma in "Sky 2" (1980), da molti ritenuto il picco espressivo della band. E' un doppio album che raduna ancora riletture di classici, da Vivaldi alla celebre "Toccata" di Bach, ma il meglio sta nei pezzi originali: in particolare la bella suite "Fifo" e la stessa "Sahara", con le sue movenze arabeggianti. Le chitarra virtuosa di Williams, eccellente in "El Cielo" e in "Ballet Volta" (da Praetorius), s'incrocia a meraviglia con quella elettrica di Peek, mentre sempre vivace è l'apporto di Monkman, diviso tra synth e piano. Non manca un tocco di umorismo ("Tuba Smarties", in versione live), nè un pezzo più sperimentale con timpani e marimba in evidenza ("Tristan's Magic Garden"). Toccato l'apice, il gruppo vede andarsene Monkman e il successivo "Sky 3" è realizzato nel 1981 col nuovo tastierista Steve Gray. La musica resta gradevole, più spostata verso una fusion dai timbri jazz, ad esempio "West Wind" o "Sister Rose", mentre "Moonroof" è un curioso mix di generi, con accenti da puro rock'n'roll. Peek e Williams danno il meglio in "Chiropodie No.1", mentre la delicata "Hello", rarefatto crescendo di note per piano e chitarre, rimanda alle limpide atmosfere del primo disco. Il seguente "Sky 4-Forthcoming" è il primo disco interamente composto di riletture classiche, ma dopo "Cadmium" (1983) la band perde anche John Williams, riducendosi a quartetto per le incisioni successive. Altre informazioni qui.

"Sky 2"

  Solution   - Gli olandesi Solution nascono a Groningen nel 1970, su iniziativa di Tom Barlage (fiati) e Willem Ennes (tastiere), già insieme nel gruppo The Keys. Schierati a quattro con il batterista Hans Waterman e il bassista Peter van der Sande, realizzano nel 1971 il primo album omonimo () che rimane forse il loro vertice. Con i fiati di Barlage in grande spolvero, la sequenza inanella brani ad effetto come l'iniziale "Koan": bella tensione ritmica, con il sax in evidenza insieme al flauto nei brevi intervalli, e riprese intriganti dominate dall'organo di Willem Ennes. I richiami evidenti ai Soft Machine non disturbano, per le buone qualità che la band sa esibire senza strafare, mentre è da sottolineare l'apporto del batterista Hans Waterman, creativo anche nelle tracce più morbide, come pure il bassista Van der Sande. Nella lunga "Trane Steps", che cita apertamente John Coltrane, fiati e organo sono protagonisti di progressioni ipnotiche, dove i singoli strumentisti si fanno valere secondo uno schema jazz accattivante. Nella più eclettica "Phases" suggestivi intrecci di flauto creano un'atmosfera sospesa intorno al vivace canto solista di Van der Sande, finché l'organo non sale al proscenio affiancato dai picchi del sax, mentre la chiusura di "Circus Circumstances" alterna vorticose marcette circensi guidate dai fiati a mordenti riprese del tema ritmico sullo sfondo dell'organo, in un misurato crescendo. Col nuovo bassista Guus Willems il quartetto registra quindi "Divergence" (1972), che accentua il lato più morbido del suono a scapito del jazz-rock precedente. Lo si nota nell'attacco di "Second Line", con il canto di Willems in stile soul assecondato abilmente dal pianoforte, quindi da organo e fiati. Più intrigante la title-track, ricca di breaks nello schema sempre elegante dominato dal sax di Barlage, così come nella lunga "Concentration", col piano elettrico in evidenza sotto la voce, prima di una cesura ritmica, e sax e organo protagonisti in pieno clima canterburiano. "Fever" è invece una parentesi rarefatta e poco riuscita, nonostante le spirali suadenti del flauto nell'ultima parte, mentre l'epilogo di "New Dimension" è un lento blues atmosferico costruito sul piano e i fiati intorno alla voce. Un album transitorio, che traghetta la band verso nuovi orizzonti sonori. Dopo una pausa dovuta agli obblighi militari di alcuni membri, nel 1975 esce infatti "Cordon Bleu", che vira verso un soul-rock raffinato, ma meno avventuroso. Lo strumentale d'apertura "Chappaqua" sfoggia un elegante piglio fusion, ravvivato dai fiati e dal fraseggio del piano elettrico, con la presenza sempre rimarchevole del drumming. Non male neppure il brioso funky-jazz di "Whirligig", ma in fondo prevalgono lente ballate costruite sulla voce solista, come "Third Line part 2" e "Song for You", che a volte provano a fondersi col resto: ad esempio nella chiusura di "Black Pearl part 2". A volte frammentario, il disco ha dei momenti pregevoli, eppure un po' si rimpiangono le promesse iniziali. Lo stesso vale per "Fully Interlocking" (1977), nel quale la transizione verso una fusion mainstream e melodica può dirsi compiuta. Sempre protagonista la sezione ritmica, come in "Carrousel", ma le canzoni d'atmosfera fanno ancora la parte del leone, dall'iniziale "Give Me Some More" alla mediocre "Empty Faces" che chiude il disco, in un generale calo d'ispirazione che contagia anche tracce strumentali come "Sonic Sea". L'ultimo disco di studio è "Runaway" (1982), che precede lo scioglimento. Ristampe a cura di Esoteric, EMI e CBS tra gli altri.

"Solution"

  Alan Sorrenti   - Una parabola folgorante, come il suo declino, quella di Alan Sorrenti, nato a Napoli nel 1950 da padre italiano e madre gallese. Nel clima irripetibile dei primi Settanta italiani, con una voce dal timbro originalissimo e senza confronti sulla scena nazionale, l'artista napoletano pubblicava "Aria"() nel 1972: atmosfere ammalianti, testi eterei e innovativi, e un tessuto strumentale fatto apposta per esaltare le doti vocali del cantante. E' soprattutto la lunga suite che intitola l'album a rapire l'ascoltatore: suoni dolcissimi e insieme sperimentali, prevalentemente acustici, con il prezioso apporto al violino di Jean Luc Ponty, sono la mobile piattaforma dal quale il canto solista spicca il volo per le sue ascensioni fuori da ogni schema. E' una lunga deriva psichedelica, a volte evanescente fino al silenzio, più spesso in precario equilibrio per quasi venti e fascinosi minuti. Si fa subito il nome di Tim Buckley, per trovare un termine di paragone, ma il disco ha una sua impronta personalissima, avvalorata dai tre brani più brevi ma ugualmente significativi, come "Vorrei incontrarti" e "Un fiume tranquillo", con la tromba e il sintetizzatore in evidenza. Un esordio di tale impatto da rendere impegnativo, fatalmente, il seguito di carriera per Sorrenti. Infatti, la replica di "Come un vecchio incensiere all'alba di un villaggio deserto" (1973), non suscita gli stessi entusiasmi, ma in realtà rimane un disco di grande spessore, con l'unico difetto di venire dopo un simile capolavoro. Registrato a Londra, e ancora con ospiti di prestigio tra i quali Dave Jackson (il fiatista dei VDGG), è un disco di sei tracce, trasfigurate dall'inarrivabile voce solista. Tra i momenti più riusciti della sequenza spicca l'accorata "Serenesse", dolcemente cullata da violino e flauto. Più spigolosa e tirata, carica di pathos visionario, è "Una luce si accende", ancora con la viola e il violino di Toni Markus in primo piano, oltre al pianoforte di Mario D'Amora. Il pezzo forte, come nell'album di debutto, è tuttavia la lunga title track del secondo lato: sovrapposizioni vocali, tappeti percussivi (a cura di Toni Esposito), effetti elettronici e liriche sospese chiudono una scaletta ancora intensa. La figura di Sorrenti però, in un clima esasperato e a volte intollerante verso una ricerca veramente libera, subisce dure contestazioni durante alcune esibizioni live, come al festival di Licola nel 1975. Il disagio dell'artista, in realtà, affiorava già nei testi del terzo album omonimo (1974), che oltre alla riproposta del classico napoletano "Dicitencello vuje", che ebbe un buon riscontro commerciale, offre comunque altri episodi molto validi: ad esempio "Un viso d'inverno" o anche "Poco più piano", con l'apporto di archi e fiati. Dopo il nuovo 45 giri "Le tue radici", Sorrenti volta pagina e abbraccia suggestioni musicali diverse, a partire da "Sienteme, It's Time to Land" (1976), e approdando quindi alla dance nei successivi dischi: "Figli delle stelle (1977) e "L.A. & N.Y., del 1979. Soprattutto i singoli, come "Figli delle stelle" e poi "Tu sei l'unica donna per me", sono grandissimi successi per l'artista napoletano. A distanza di anni, resta comunque straordinario l'impatto delle sue prime prove prog-psichedeliche nell'ambito della musica italiana degli anni Settanta. Altre notizie nel sito ufficiale.

"Aria"

  Speed Limit   - Questa band originaria di Parigi si mette insieme nel 1974 e include musicisti coinvolti a vario titolo nella scena Zeuhl francese che realizzano un paio di album di sofisticato jazz-rock senza parti liriche. Nel disco d'esordio omonimo (1974) suona un sestetto che ruota intorno al sax di Jeff Seffer (soprano e tenore) e al piano elettrico di Jean-Louis Bucchi, come si nota nella lunga traccia iniziale "Sleep Walker". E' una composizione dal sapore ipnotico, scandita dalle percussioni di Shirok e dalla batteria di George Jinda, dove accanto al sax e al piano si mette in luce anche l'affilata chitarra elettrica di Gérard Curbillon, ma all'insieme manca un pizzico di fantasia, nonostante l'alto livello tecnico. Lo stesso può dirsi di "Spanish Dream", coi suoi spazi improvvisativi e gli spunti virtuosistici di sax, piano e chitarra, come pure della finale "Ducky". Il piano elettrico di Bucchi svetta soprattutto in "Pava", mentre la più breve "Abra" si giova di strani effetti percussivi e vivaci spunti del sax soprano. Pensoso invece il clima che si respira in "Ballad to Laura Antonelli", un omaggio all'attrice italiana per soli sax tenore e piano elettrico, senza le percussioni. Più interessante è il secondo e ultimo disco inciso dal gruppo, anche questo intitolato semplicemente "Speed Limit" (1975). Se il chitarrista Curbillon abbandona senza essere rimpiazzato, il bassista Joël Dud Dugrenot è rilevato dal rinomato Jannik Top (ex Magma), e il nuovo quintetto si produce in un'altra sequenza fusion di buon livello, arricchita stavolta da elementi eterogenei. Bucchi e Seffer firmano una suite ciascuno: "Time's Tune", in quattro segmenti ideati dal pianista, mescola atmosfere vagamente esotiche dominate da flauto e sax soprano accanto al piano elettrico ("Breeze Borealis" ad esempio), a serrati fraseggi tra piano e sax ("Run Around the Block"). Voci molto evocative si ascoltano in "Jettatura", tra i momenti migliori, con Seffer impegnato brillantemente tra sax, flauto e clarinetto: centrale qui il ruolo delle percussioni e pregevole il lavoro al basso di Top. Nella suite "Pastoral Idyl", firmata da Seffer, l'elemento nuovo è la presenza degli archi (violini e violoncello) fin dall'attacco di "Part I". Bella la scansione ritmica di "Lemon Tree", con la batteria sugli scudi, innervata dal sax soprano e un piano elettrico mai banale: incroci virtuosi tra due grandi solisti. Altrove tornano in scena gli archi e il flauto in brani di buona suggestione, come "To the Girl of the Moon", con le voci aggiunte, e quindi "Reaching the Stars", con accenti operistici a tratti. Nel mezzo sta l'unico episodio firmato da Jannik Top, vale a dire "African Dance", che tiene fede al titolo col suo ipnotico ritmo percussivo e un canto rituale sostenuto dal basso e dai fiati. Un album insolito, tra jazz-rock e influenze composite, che merita un ascolto per la qualità dei singoli e dell'insieme. In seguito, Seffer suona ancora con Zao e Magma, mentre Top contribuisce a vari progetti di Christian Vander e collabora con gli Heldon. Ristampe in CD di Musea e Belle Antique.

"Speed Limit"

  Sperrmüll   - Originari di Aquisgrana, i tedeschi Sperrmüll (cioè "discarica") prendono corpo nel 1971 in formazione triangolare, ma si stabilizzano solo con l'ingresso del diciassettenne tastierista Peter Schneider. Il quartetto spunta quindi un contratto con la celebre Brain, label fondamentale per la scena rock tedesca, e incide il suo unico disco omonimo () alla fine del 1972. Realizzato agli inizi dell'anno seguente, è un album di sei tracce, con i testi in inglese, che mostra una verve insolita per il Krautrock e scorre accattivante dal principio alla fine. Come si nota già nella brillante apertura di "Me and My Girlfriend", costruita sul pianoforte e il mandolino di Helmut Krieg, il quartetto suona un rock eclettico e grintoso, con qualche inserto di sintetizzatore e una spiccata impronta ritmica. Lo si vede soprattutto in "Rising Up", dove il basso martellante di Harald Kaiser guida le danze di un brano tiratissimo, nel quale l'organo e la mordente chitarra solista lasciano il segno. In generale, nella musica degli Sperrmüll l'improvvisazione è una componente importante, e all'interno dello schema si aprono spesso parentesi lasciate ai singoli: ad esempio "Right Now", un torrido hard rock con l'organo e soprattutto la chitarra di Krieg protagonisti, supportati a dovere dal basso e dal vivace lavoro della batteria, con la voce urlata di Kaiser in evidenza. Ancora rock a tinte forti nella finale "Pat Casey", sviluppata s'un classico riff chitarristico e articolata su lunghe variazioni in tema, e poi nella più melodica "Land of the Rocking Sun", con l'organo di sfondo alla voce e al consueto fraseggio della chitarra. Nella scaletta si segnala comunque un episodio a parte come "No Freak Out": l'intro quasi psichedelica, lenta e avvolgente, evoca i momenti più ambiziosi della scena rock tedesca, con le chitarre e la voce solista enfatizzata dall'effetto-eco, prima di lasciare spazio al fraseggio dell'organo e di nuovo a una chitarra elettrica lancinante, anche se il finale si placa nelle tonalità maestose dell'inizio. La band si scioglie poco dopo, quando Schneider decide di tornare ai suoi studi e un tour programmato con i Birth Control viene annullato. Anche se spesso dimenticato nel grande calderone del Krautrock, l'unico disco firmato dagli Sperrmüll merita sicuramente un ascolto, perché la sua godibile ricetta sonora ha retto discretamente, meglio di altre, alla prova del tempo. Ristampe a cura di Brain e Second Battle, anche in vinile.

"Sperrmüll"

  Spheroe   - Una formazione francese messa insieme a Lione nel 1972, su iniziativa del tastierista Gérard Maimone e del chitarrista Michel Pérez, insieme a Rido Bayonne (batteria) e Patrick Garel (basso). Il quartetto porta avanti per anni una vivace attività live, facendosi così apprezzare nel circuito jazz-rock, ma solo nel 1977 realizza il suo primo album omonimo per l'etichetta Cobra: si tratta di una sequenza molto apprezzabile di fusion strumentale, spalmata in sette episodi suonati con discreta verve. Come si nota nella lunga apertura di "Black Hill Samba", la musica è dominata dalla chitarra solista di Pérez, ben affiancato dal piano elettrico di Maimone, con massicce iniezioni di un synth spesso protagonista: nei frequenti cambi di tempo si esalta anche la brillante sezione ritmica, così che l'insieme conserva sempre un forte dinamismo. Nei brani più lunghi, come ad esempio "Chattanooga", si conferma la tecnica dei quattro, anche se alla lunga il loro jazz-rock suona un po' ripetitivo. Tra i brani più brevi spicca "Contine", una rarefatta parentesi costruita sulla chitarra acustica e il piano elettrico, con il delicato apporto del vibrafono di Maimone, mentre l'elemento percussivo accentua il colore caldo e latino del suono: ad esempio "Vendredo au Golf Drouit" o più ancora "Deconnection", con chitarra e synth protagonisti indiscussi insieme alla batteria. Ben accolto dalla critica, il disco viene distribuito anche negli States, dove vende circa tremila copie. L'album successivo è "Primadonna" (), registrato al famoso Aquarius studio di Ginevra e pubblicato nel 1978. Basato in gran parte sulla musica scritta, in origine, per una rappresentazione teatrale di Goldoni ("L'adulateur"), è sicuramente l'album più riuscito della band lionese: i brani si accorciano, e si nota soprattutto una maggiore focalizzazione dei temi, senza le ridondanze del precedente. Sempre sugli scudi la pulsante sezione ritmica in episodi come "Cocorido", con la chitarra di Pérez e il synth che aggiungono colore e vivacità all'insieme: vale pure per l'attacco mordente di "Hep deliber bisi bulur", con il pirotecnico basso Fender di Bayonne, e per "Arlecchino", tra i momenti migliori per l'eccellente lavoro della chitarra solista nello schema ritmico di base. La raffinata title-track si avvale anche del vibrafono nella sua scansione elegante, mentre il dialogo di synth e chitarra acustica in "Karin Song", con inserti di pianoforte, aggiunge una bella dose di melodia. A parte gli echi quasi flamenchi della breve "Chiaroscuro", segnata a dovere dal synth eclettico di Maimone, si fa notare soprattutto "Jeff", che esalta ancora la chitarra elettrica nel cuore di una progressione meno serrata e più pensosa, a dimostrazione che dietro la tecnica del gruppo c'è una sicura personalità, ed è proprio questo a distinguere il jazz-rock degli Spheroe da tanta fusion standard dei secondi Settanta. La band sembra procedere col vento in poppa, ma quando i membri vengono risucchiati da progetti personali è inevitabile lo scioglimento, avvenuto nel 1979. Gérard Maimone, sempre molto attivo, ha realizzato diversi album da solista, e ha scritto moltissima musica per il teatro, il cinema e il balletto: altre notizie nel suo sito ufficiale. Ristampe a cura di Musea e Mals.

"Primadonna"

"Jeff"

  Spirale   - Come in altri paesi, anche in Italia le sonorità sinfoniche che hanno dominato la scena dei primi Settanta cedono il passo gradualmente a un tipo di jazz-fusion che a volte lascia proprio il rock sullo sfondo. È appunto il caso del gruppo romano Spirale, che nel 1975 realizza l'album omonimo (), pubblicato per l'etichetta King Universal di Napoli, fondata dal noto cantante Aurelio Fierro. Il quintetto, che include ben due fiatisti, suona una fusion tutt'altro che accademica sotto la guida del bravo contrabbassista Peppe Caporello che firma tre brani su quattro: come spiegato nelle note interne, l'idea è quella di fare musica attingendo anche alla tradizione popolare, con richiami evocativi e abilmente inseriti nel tessuto jazz. Lo si vede soprattutto nella lunga "Peperoncino (Cose vecchie, cose nuove)", una composizione che assembla spunti diversi e stimolanti. Costruito sul pianoforte eclettico di Corrado Nofri, con l'apporto della tromba e del sax, il brano evolve con bella naturalezza in uno schema aperto e cangiante al quale concorrono brillantemente i cinque strumentisti, con i fiati che riecheggiano suggestivi suoni di zampogna, e una sezione ritmica particolarmente duttile: accanto al contrabbasso di Caporello si segnala la batteria di Giampaolo Ascolese, oltre a un un ricco reparto percussivo e al violino dell'ospite Dino Londi. È probabilmente la traccia-chiave del disco, ma il resto non sfigura affatto. La tromba di Gaetano Delfini, ad esempio, è protagonista di "Rising", in apertura: è un brano dal ritmo brioso, dove il Fender piano di Nofri affianca la tromba, e la batteria si prende il suo spazio con un breve assolo. Si avvertono qui influenze del Canterbury più famoso, ma personalizzate a dovere da un quintetto vitalissimo e affiatato. Il brano più breve è "Una ballata per Yanez", col il pianoforte intimista e quasi solitario protagonista, fino a sfumare sulle note del flauto di Giancarlo Maurino, mentre la seconda traccia lunga è "Cabral, anno 1", omaggio al rivoluzionario leader della Guinea-Bissau. Ancora guidato dal pianoforte, il pezzo si distingue per la ricca presenza di percussioni esotiche che in qualche modo evocano il contesto africano, con uno sviluppo molto libero, quasi tribale, e vivaci combinazioni tra il sax di Maurino e la tromba soprattutto. A lungo quasi dimenticato, l'unico disco firmato dagli Spirale merita invece un posto di rilievo nell'ambito della fusion tricolore, per la qualità dei singoli e la capacità di evadere certi stilemi inflazionati del genere. Dopo lo scioglimento, Giampaolo Ascolese è rimasto il più attivo, sia nel jazz che nella musica classica contemporanea, con molteplici collaborazioni e diversi dischi da solista. Ristampe in CD e vinile a cura dell'etichetta Dialogo.

"Spirale"

"Peperoncino"

  Spirogyra   - Originari di Bolton e devoti al folk progressivo in voga sul finire del decennio, gli Spirogyra si formano nel 1967 su impulso del chitarrista e cantante Martin Cockerham e Mark Francis. Nel 1969 però il primo se ne va e rifonda il gruppo con la cantante Barbara Gaskin e altri elementi che gravitano intorno all'Università del Kent. Il disco d'esordio è "St. Radiguns", pubblicato nel 1971 dall'etichetta B&C: dieci tracce all'insegna di un folk vivace, traversato da umori irrequieti e oscuri, grazie al violino di Julian Cusack e alla voce aspra di Cockerham, lanciati in eclettiche scorribande, al limite della dissonanza: ad esempio "Magical Mary". La voce delicata di Barbara Gaskin costituisce il controcanto alla ricetta, come si nota nell'attacco di "The Future Won't Be Long" o nella breve "Love Is a Funny Thing". Un mix singolare e disuguale, che alterna episodi riusciti ad altri ancora grezzi. Un'attitudine quasi sperimentale, davvero "progressiva", si apprezza comunque in brani come "Time Will Tell", col piano di Cusack protagonista. La bella melodia orchestrale di "At Home in the World" è ancora costruita sul pianoforte, con fiati e archi aggiunti, ma l'ossatura dell'album resta quella descritta, col violino spiritato in primo piano, e in questa direzione "Cogwheels, Crutches and Cyanide" è forse la traccia più rappresentativa. Il seguito è "Old Boot Wine" (1972), nove pezzi ancora di buon livello, ma l'ingresso in organico del vecchio sodale Mark Francis sposta la musica verso un folk-rock più elettrico. Ad esempio l'attacco tiratissimo di "Dangerous Dave", o anche "Wings of Thunder", con la chitarra elettrica che affianca il violino. Bella la più raccolta "Van Allen's Belt", col pianoforte sotto le voci, anche se è il brano più lungo, "World's Eyes", a segnalarsi per la progressione sincopata e nervosa delle voci in un contesto misto, tra chitarre acustiche ed elettriche, in un'alternanza costante di pieni e vuoti. Un po' sacrificata nell'insieme, la limpida voce della Gaskin emerge meglio in "Disraeli's Problem", ma in generale è sovrastata dalle voci maschili. Un disco interessante, ma il meglio sta nel terzo album di studio del 1973, "Bells, Boots and Shambles" (): intorno al duo Gaskin-Cocherham, la dimensione sonora si fa più classica, quasi cameristica. Lo si nota già nella splendida apertura di "The Furthest Point", col violoncello e il flauto in bella evidenza, insieme alla voce celestiale della Gaskin e alla tromba. La cantante ha finalmente lo spazio che merita e anche episodi come "An Everyday Consumption Song", piena d'echi e risonanze, e poi l'incantevole "Old Boot Wine", ancora con un flauto leggiadro e il violoncello a supporto, si giovano moltissimo del suo timbro delicato che illustra paesaggi eterei di grande fascino. In una sequenza più pacata del solito, anche le tonalità più aspre di Cockerham si integrano meglio con la voce femminile: ad esempio "Parallel Lines Never Separate", dove si ascolta anche il pianoforte di Cusack. Il pezzo forte del disco è sicuramente la suite in quattro parti di "In the Western World", ottimo esempio di questo folk acustico e aperto a suggestioni composite, tra classicismo e sperimentazione. In primo piano oltre alle due voci anche il flauto e gli archi, in un insieme mosso e spesso imprevedibile, fino all'epilogo suggestivo della ripresa, con la tromba protagonista. Subito dopo l'interesse dei discografici si affievolisce e la band si scioglie nel 1974. Cockerham entra negli Hare Krishna, mentre la Gaskin collabora con gli Hatfield and The North e quindi in duo con Dave Stewart e altri esponenti di Canterbury. Nel 2004 però la band si riforma e realizza un paio di nuovi album, ma Cockerham muore nel 2018. Varie le ristampe, anche in vinile.

"Bells, Boots and Shambles"

  Spontaneous Combustion   - Originario di Poole, nel Dorset, questo trio inglese formato intorno al 1969 esordisce quando i tre componenti hanno tra i sedici e i diciotto anni: sono i due fratelli Gary e Tristian Margetts (chitarra e basso rispettivamente), e il batterista Tony Brock, che realizzano due discreti album prima di cadere nel dimenticatoio. È il già notissimo Greg Lake a produrre il loro primo disco, un omonimo pubblicato nel 1972 per la Harvest, ma i risultati commerciali non sono quelli sperati. Nonostante questo, l'album offre sei tracce di livello apprezzabile, con le chitarre in bella evidenza insieme alle voci fresche dei tre, in una mistura melodica e vigorosa insieme, che risente ancora di una certa psichedelia di fine anni Sessanta. Lo si vede nella lunga "Listen to the Wind", con la chitarra carica di effetti tra pause rarefatte e riprese, mentre l'attacco di "Speed of Light" è un rock battente dal refrain vocale incalzante, con aggiunte di piano e synth qua e là, e lunghe tirate chitarristiche di Gary Margetts ben assecondato dalla sezione ritmica composta dal fratello Tristian (basso) e da Tony Brock (batteria). I due schemi si alternano nei restanti episodi. Interessanti soprattutto la crepuscolare "Leaving", con un bel finale in crescendo, mentre la lunghissima "Reminder" allinea pregi e difetti della proposta: grinta da vendere e spunti in serie della chitarra in una sorta di jam aperta, non sempre calibrata a dovere, con le voci frizzanti spesso protagoniste insieme alla chitarra. Nell'Ottobre dello stesso anno, il trio ci riprova con "Triad" (): altri sette brani all'insegna di un hard rock brillante e più rifinito, che dimostra una discreta caratura tecnica. Resta un'esperienza poco legata ai contenuti più complessi del progressive rock di quegli anni, tuttavia apprezzabile per la coerenza interna dimostrata dai tre giovani musicisti. Accanto ai momenti più sanguigni e martellanti, come "Brainstorm", non manca neppure una pop-song costruita sul pianoforte: è il caso di "Child Life", col morbido appoggio della chitarra solista al tema melodico. Il grosso è però costituito da pezzi dall'ossatura scarna e ruggente: ad esempio la breve "Love and Laughter", e soprattutto l'iniziale "Spaceship", dove melodia e riff chitarristici convivono secondo un modello semplice ma efficace. La chitarra di Gary Margetts domina in lungo e largo brani come "Pan", segnato da riff selvaggi ed effetti di vario tipo, ed anche la discreta minisuite di chiusura "Monoliths", divisa in tre parti: ritmica secca di batteria e lunghe digressioni solistiche, con piccole invenzioni quasi jazzate a tratti, integrate dalle solite parti vocali fresche e incisive. Il chitarrista sembra molto cresciuto, e il disco, decisamente migliore del debutto, avrebbe meritato miglior sorte. A nome del gruppo escono ancora due singoli nel corso del 1973, seguiti dallo scioglimento, ma i fratelli Margetts ci riproveranno poi con i Time. Varie le ristampe, inclusa la compilation che riunisce i due album a cura della See For Miles (e poi anche Mason).

"Triad"

  Spring   - Capita a volte di scoprire delle autentiche perle rovistando nel vasto e spesso accidentato mare delle ristampe progressive. È il caso ad esempio di questa band a lungo dimenticata, formata a Leicester nel 1970, che ha lasciato agli annali della scena prog inglese un solo disco, inciso per la Neon, una sotto-label della RCA. "Spring" (1971) merita effettivamente più di una semplice menzione: le otto tracce dell'album s'impongono come uno dei più compiuti affreschi sonori della irripetibile fioritura prog britannica dei primi anni settanta. Il quintetto mostra una sorprendente maturità espressiva all'interno di una sequenza rifinita in ogni dettaglio, con un equilibrio strumentale che sembra appartenere a un gruppo insieme da anni piuttosto che a una formazione al suo debutto. Da una costola dei primi King Crimson sembra emergere il tappeto di mellotron quasi onnipresente (lo suonano in tre), già dall'iniziale "The Prisoner (Eight by Ten)", stupendamente giocato attorno alla duttile, persuasiva voce di Pat Moran, fino alla progressione epica e marziale della batteria di Pique Withers in un grandissimo finale che lascia il segno. Lo schema, romantico e trasognato, si ripete anche in "Grail", mentre in altri casi la band sfodera un convincente piglio rock, più acido e variegato: come in "Shipwrecked Soldier", ad esempio, o "Inside Out". In "Golden Fleece", invece, la morbida e sontuosa atmosfera delle tastiere di Kips Brown è arricchita dalla brillante chitarra solista di Ray Martinez. La chiusura di "Gazing" vira nuovamente verso i prediletti sentieri del primo Re Cremisi: deciso attacco mellotronico e visionario, seguito poi dalle morbide armonie del canto di Moran, ancora con il contrappunto prezioso della chitarra. Nella ristampa digitale Repertoire del '94 vengono pure incluse tre eccellenti bonus-tracks, che dovevano far parte di un secondo album mai realizzato all'epoca, e uscito solo postumo nel 2008 da Akarma col titolo "Second Harvest": un motivo in più per rimpiangere il precoce scioglimento degli Spring, avvenuto nel 1972. Il loro unico disco uscito in tempo reale, comunque, è da acquistare ad occhi chiusi. Curiosità: il batterista Withers, che nel periodo 1965-'69 aveva fatto parte dei Primitives (quelli di Mal), più tardi suonerà invece con Dire Straits e Magna Carta. Molto attivo anche il chitarrista Martinez, che vanta numerose e variegate collaborazioni, mentre Pat Moran (scomparso nel 2011) è stato soprattutto arrangiatore e produttore.

"Spring"

  Steamhammer   - Nella grande ondata del progressive-blues britannico a cavallo di Sessanta e Settanta, spicca il nome di questo gruppo titolare di quattro dischi. Formati nel 1968 a Worthing, gli Steamhammer toccano il loro apice creativo con "MK II" (1969), seconda prova dopo il debutto di "Reflection" lo stesso anno. Con un paio di cambi in organico, e l'arrivo di Mick Bradley (batteria) e soprattutto di Steve Jolliffe (flauto e sax), il quintetto esce coraggiosamente dagli schemi canonici del british blues e si apre a suggestioni inedite. Il gioco incrociato tra la chitarra solista di Martin Pugh e la calda voce di Kieram White (membri fondatori della band) si arricchisce fecondamente del grande lavoro fiatistico di Jollife, capace di spunti in bilico tra jazz, rock e pura improvvisazione. In "Turn around" il flauto e il clavicembalo sfoggiano un delicato piglio barocco, ma i momenti di grazia sono diversi. Dall'attacco di "Supposed to be free", duttile rock-blues ben scandito da chitarra e sax, come pure la trascinante "Contemporary Chic Con Song", a "6/8 for Amiran", ancora sostenuta dal flauto e da una ritmica nervosa, fino a "Passing through", limpida cavalcata chitarristica. Il potenziale della band è però racchiuso nei sedici minuti di "Another travelling tune", saggio scintillante di rock contaminato e poliforme, aperto da un flauto evocativo e poi sviluppato su cadenze ipnotiche, quasi psichedeliche, con l'estroso apporto del sax, infinite variazioni chitarristiche e la voce di White al suo meglio. Rimane il vertice espressivo del gruppo. Emigrati in Germania dove godono di un seguito maggiore che in patria, gli Steamhammer devono poi rinunciare a Jolliffe, e realizzano in quartetto "Mountains" (1970). E' senz'altro un disco meno avventuroso, ma nondimeno solido e ancora ricco di ottime cose. Eccellenti esempi di rock-blues a tratti hard, come "I wouldn't have thought" o "Walking down the road", dominati dalla consumata intesa di White e Pugh, ma anche sorprendenti parentesi dai toni più pacati, come la raffinata title-track e "Leader of the ring", con la chitarra acustica e le voci intimiste, prima di un lungo brano live come "Riding on the L&N". Ridotti in tre per le defezioni di White e del bassista Davy, con l'arrivo di Luis Cennamo (ex Renaissance), gli Steamhammer realizzano "Speech" nel 1972, ultimo atto prima dello scioglimento. CD di Repertoire e Akarma.

"MK II"

  Steel Mill   - Un altro gruppo inglese di scarsa fortuna, formato a Londra nel 1969 e a lungo avvolto da un certo mistero per ciò che riguarda i cinque componenti, i cui nomi sono riportati comunque tra le note dell'unico album, realizzato dopo un primo singolo datato 1971. Si tratta di "Green Eyed God" (), pubblicato dalla piccola label Penny Farthing Records nel 1972, ma inizialmente solo in Germania: nel 1975 il disco è finalmente pubblicato anche in Inghilterra, dopo di che dei musicisti non si saprà più nulla, con la sola eccezione del bassista Jeff Watts, che rimane attivo in diverse formazioni pop-rock britanniche. Il disco include otto tracce di durata variabile, che alternano momenti di vigoroso heavy prog, come nell'iniziale "Blood Runs Deep", con la voce del tastierista David Morris protagonista insieme al riff chitarristico di Terry Williams e al sax, e altri più dimessi, spesso cullati da un flauto dolce e quasi bucolico: ad esempio "Summer's Child", o la brevissima "Hair Fleur" in chiusura. Un flauto di sapore agreste apre pure la lunga title-track, che poi prende corpo sulle percussioni e in lunghe e incisive variazioni della chitarra solista, ben assecondata dalla grintosa voce di Morris e dalla batteria. Lo stesso schema si ripete anche in altri brani, dove convivono atmosfere folk e brusche impennate rock, con le tastiere sempre defilate rispetto alla chitarra e la voce quasi sempre in primo piano: è il caso di "Black Jewel of the Forest", con la scansione quasi tribale della batteria che accompagna l'evoluzione del pezzo e il canto intrigante. Il suono è quasi sempre grezzo e scarno, senza eccessivi fronzoli, eppure piuttosto efficace, come in "Treadmill", scandito da chitarra e voci quasi gutturali, con l'intervento aggiunto del sax nella parte finale. Ancora il sax di Challenger in evidenza nella tumultuosa "Mijo and the Laying of the Witch", traccia segnata da potenti riff e dal lavoro importante della batteria di Chris Martin: è uno dei picchi della sequenza, per i toni marcatamente dark garantiti sia dalla voce che dai riff chitarristici messi a singolare contrasto con le note del flauto. Il pianoforte di Morris costituisce invece l'ossatura di un brano come "Turn the Page Over", che scivola s'una ritmica agile e nervosa sulla quale s'inserisce il tocco più raffinato della chitarra, con strane parti vocali ad effetto. In conclusione, la ricetta sonora degli Steel Mill, che si sciolgono nell'agosto del '72 dopo qualche avvicendamento in organico e un secondo 45 giri, conserva qualcosa di incompiuto, ma indubbiamente le piccole sbavature di scrittura non tolgono niente al fascino oscuro che si sprigiona dai solchi e questo assicura al loro unico album un certo rilievo nelle cronache del prog inglese dei Settanta. Diverse le ristampe oggi disponibili, in CD e vinile, spesso con bonus-tracks tratte dai due singoli del gruppo.

"Green Eyed God"

  Still Life   - Ecco una delle band inglesi più oscure uscite dalla gloriosa scuderia Vertigo. Sono rimasti a lungo nell'ombra, infatti, i nomi del quartetto fotografato all'interno della copertina, e che oggi invece conosciamo: Martin Cure (voce), Graham Amos (basso), Terry Howells (tastiere) e Alan Savage (batteria). Il gruppo è originario di Coventry, e il cantante aveva formato una sua band (Martin Cure and The Peeps) in pieni anni Sessanta, con alcuni singoli realizzati per la Philips nel periodo 1966-1968. Dopo varie vicende e cambi di sigla, la band spunta un contratto con la Vertigo e realizza il suo unico album. "Still Life" (1971) rimane senza dubbio un disco abbastanza rappresentativo del progressive inglese della prima ora, sia pure tra alti e bassi e qualche ingenuità. L'enfasi è sulla bella voce solista di Cure, che ha incisivi toni blues, e sull' organo, che danno il meglio nell'iniziale "People in Black", con la splendida coda strumentale e una buona presenza del basso di Amos, nella sofferta "Don't Go" e "Love Song No.6", che si apre su chitarra acustica e voce, per evolversi tra tocchi di piano e organo verso una serie di variazioni strumentali interessanti. In tema di progressive più canonico, sono da ascoltare invece "Dreams", ritmicamente più sostenuta e cattiva anche nelle parti vocali, e quindi la conclusiva "Time", con il cantante che sembra davvero duettare con l'organo di Therry Howells in una serie di spunti veramente intriganti. L'assenza di una chitarra elettrica in organico conferisce comunque un timbro particolare al suono del gruppo, e così l'unico album degli Still Life si rivela interessante soprattutto per gli appassionati che apprezzano band simili, basate principalmente sulle tastiere. Il disco non è sicuramente un capolavoro, e conserva per molti aspetti una certa incompiutezza, ma merita ugualmente un attento ascolto. Ristampe varie, come Repertoire e Akarma.

"Still Life"

  Stone The Crows   - Nel calderone musicale di fine anni Sessanta gli scozzesi Stone The Crows hanno saputo lasciare il segno. Si formano quando la cantante Maggie Bell incontra a Glasgow il chitarrista Les Harvey, fratello di quell'Alex Harvey che poi fonderà la Sensational Alex Harvey Band: il primo nome è Power, quindi assumono la sigla definitiva nel 1970. L'album d'esordio inciso lo stesso anno è un omonimo dove il quintetto mostra subito un'ispirazione composita: da un lato cover come "Fool on the hill" dei Beatles e vecchi blues rielaborati ("Blind man"), con vibranti soul-rock come "Raining in your hearth", ch'esaltano la voce graffiante della Bell e la chitarra solista di Harvey, e dall'altra una vena più sperimentale. La lunghissima "I saw America" esprime sonorità complesse e variegate, con le tastiere di John McGinnis spesso in cattedra, e una serie di spunti che vanno dal rock acido alla psichedelia e al blues con bella personalità. Ben accolti dalla stampa, i Crows non perdono tempo e realizzano quindi "Ode to John Law" (ancora 1970), che rimane il loro capolavoro e mostra appieno il potenziale vocale di Maggie Bell, fin dall'apertura splendida di "Sad Mary", che lascia emergere la chitarra di Harvey, carica di effetti, in un contesto strumentale caldo e avvolgente. Qualcosa di seducente percorre l'intera sequenza a cominciare da "Love", davvero ipnotica col suo refrain vocale, il timbro ossessivo del piano elettrico e i ricami chitarristici, e "Friend", soul-rock dalla tessitura indolente e irresistibile. Intrigante anche la title-track, carica di un pathos umbratile, con Harvey e McGinnis in pieno trip psichedelico, insieme al basso e alle percussioni. Altrove la band si concede momenti più solari, ad esempio in "Mad dogs and englishmen" e poi in "Things are getting better", episodi che mostrano un perfetto amalgama e grande duttilità strumentale. Nel 1971 Maggie Bell viene eletta miglior voce inglese, e il gruppo raggiunge il vero successo commerciale col successivo "Teenage Licks", che vede il tastierista Ronnie Leahy e il bassista Steve Thompson rilevare McGinnis e Jim Dewar. La musica è più fluida e brillante nella confezione, ma forse meno originale. Di sicura presa sono l'iniziale "Big Jim salter", la bella cover di "Don't think twice" (Bob Dylan) e la melodica ballata "Faces". Più interessanti però sono la progressione sincopata di "Mr. Wizard", con la voce della Bell più che mai degna di Janis Joplin, la scintillante "One five eigth" e anche "I may be right, I may be wrong", mentre la trasognata "Seven lakes" è firmata da Leahy, protagonista col suo pianoforte. Ormai lanciatissimi, i Crows subiscono però l'improvvisa tragedia di Les Harvey, folgorato sul palco da un corto circuito, e il quarto e ultimo disco "'Ontinuous performance" (1972) è terminato con il chitarrista Jimmy McCulloch. Sciolto il gruppo, Maggie Bell incide un paio di album solistici.

"Ode to John Law"

  Strawbs   - Gruppo inglese assai longevo e di buona fama, formato a Londra nel 1967 da Dave Cousins e Tony Hooper. Gli inizi sono all'insegna del folk-rock e nel 1968 incidono un disco in Danimarca con Sandy Denny (poi con i Fairport Convention), pubblicato però solo nel 1973 col titolo "All Our Own Work". La vera storia della band comincia in realtà agli albori del nuovo decennio, con una formazione rinnovata e l'arrivo del giovane e talentuoso tastierista Rick Wakeman. Dischi come quello omonimo e quindi "Dragonfly" (1970), in qualche modo preparano il terreno al convincente "Just a Collection of Antiques and Curios", registrato dal vivo nel 1970. Le tastiere di Wakeman conferiscono alla musica di Cousins e soci un colore più barocco e meno ortodosso, di sicuro più interessante e vicino al progressive. "Temperament of Mind", ad esempio, è un virtuoso assolo di pianoforte e in "Where is This Dream Of your Youth?" l'organo vivacizza l'andamento del pezzo, sviluppato tra percussioni e chitarre. Più sbilanciate sul versante folk sono invece "The Antique Suite", dominata dagli strumenti a corda e dalle voci corali, e l'esotica "Fingertips", col sitar del batterista Richard Hudson. Nel successivo "From the Witchwood" (1971), uno dei vertici della band, le due componenti si fondono in maniera più compiuta. Oltre a "Witchwood", dal riff acustico vincente e belle armonie corali, spiccano il crescendo frastagliato di "The Hangman and the Papist", con l'organo e la batteria in evidenza, e "Sheep", dove le tastiere sostengono a dovere il canto espressivo di Cousins. A colpire è soprattutto l'arrangiamento barocco/sinfonico di "The Shepherd's Song", brano arioso e spagnoleggiante, col mellotron, il sitar e belle parti di piano. A questo punto però Wakeman abbandona per raggiungere gli Yes, mentre la band è in tour negli USA, e gli Strawbs lo rimpiazzano con Blue Weaver nel successivo album "Grave New World" (1972). Come indica il titolo sepolcrale, si accentuano i toni mistico-ieratici di Cousins, condizionato da letture come il "Libro tibetano dei morti". Le tastiere hanno comunque più spazio sin dall'iniziale "Benedictus", e la musica si fa più ricca, a tratti maestosa: soprattutto "Queen of Dreams" (scritta a Rimini) e poi la stessa "New World", con la voce sopra le righe in un testo ispirato alla dura realtà dei bambini di Belfast. La chitarra elettrica domina il rock piuttosto aspro ma efficace di "Tomorrow", ben supportato dall'organo e dal basso di John Ford. Non mancano intermezzi di sitar ("It's Today, Lord?") e folk-song ben confezionate ("The Flower and the Young Man", cantata da Hooper). Subito dopo c'è però la defezione di Hooper, e poi anche di Ford e Hudson, dopo la pubblicazione di "Bursting at the Seams" nel 1973, nel quale suona il nuovo chitarrista Dave Lambert (ex Fire). L'album ottiene buone vendite, anche negli USA, ma il seguito è una serie di fasi altalenanti per gli Strawbs. Discreto tra gli altri è un album come "Hero and Heroine" (1974), con la splendida "Autumn" in apertura di una sequenza che accanto ai momenti più felici (la title-track o la romantica "Sad Young Man") include motivi rock ("Round and Round" o "Just Love") oltre a qualche melodia pop ("Shine On Silver Sun"). In ogni caso, la band resta molto attiva sia dal vivo che dal punto di vista discografico, sempre con un buon seguito di pubblico soprattutto negli States. Notizie nel sito ufficiale.

"From the Witchwood"

  String Driven Thing   - Questo gruppo scozzese nato nel 1967 esordisce con un disco omonimo del 1970: lo realizzano in trio Chris Adams (chitarre e voce) e sua moglie Pauline (voce e percussioni), insieme al bassista e chitarrista John Mannion, con un repertorio che strizza l'occhio al folk americano degli anni Sessanta. Dodici canzoni di forte sapore melodico, dalla vivace "July morning" in apertura alla pacata "Wonderful places", dove si avvertono echi west-coast soprattutto nelle belle armonie vocali ("I Don’t Wanna Wake Up"). Frequenti gli arrangiamenti orchestrali, con gli archi in primo piano ("That's My Lady"), e la chitarra elettrica più defilata ("City Man"). Il disco passa inosservato e il gruppo si trasforma in quartetto con l'arrivo del violinista di estrazione classica Grahame Smith e del bassista Colin Wilson, mentre continua a mancare un vero batterista. Sotto contratto con la prestigiosa Charisma, gli String Driven Thing pubblicano un nuovo disco omonimo (1972), dove la mutazione stilistica è vistosa. Splendido l'attacco di "Circus", un rock'n'roll elettrico e ossessivo scandito dalla chitarra con il grande apporto dall'estroso violino di Smith, vero protagonista dell'album sia nei momenti più pacati (la bella "Easy to Be Free") che in quelli che abbinano le armonie vocali alle scansioni roccheggianti delle chitarra di Chris Adams. "Hooked On the Road" è un interessante rock con ascendenze country, sottolineato dalle voci, al pari di "My Real Hero". Il violino è ugualmente incisivo nel finale dell'intensa ballata "Jack Diamond", e più languido in un brano acustico quale "Very Last Blue Yodell". Nel terzo album entra finalmente in organico il batterista Billy Fairley e il miglior affiatamento della band rende "The Machine That Cried" (1973) un capolavoro di prog trasversale e anomalo. L'atmosfera piuttosto cupa del disco risente di un periodo trascorso in ospedale da Chris Adams, ma sin dall'attacco di "Heartfeeder" se ne resta ammaliati. Il violino di Smith si lancia in ardite spirali sonore che incrociano il canto esasperato di Adams in un dark-rock dai tratti inquietanti che lascia il segno, e non da meno sono "Sold Down the River", il ruvido folk-rock di "Night Club" e la stessa title-track, con le sue splendide armonie vocali e il brillante contrappunto del violinista. Se "Travelling" è una delicata ballata acustica di tono intimista, come "The House", l'acme del disco è nella suite finale "River of Sleep", con la sua tensione progressiva che sale nelle voci e poi vibra nel diabolico violino di Smith fino a placarsi nel canto desolato di Pauline Adams. Un grande disco senza fortuna. Rimasto da solo, Smith realizza con altri elementi due dischi come "Please Mind your Head" e poi "Keep Yer 'and On It". Riformata poi da Chris Adams la band ha realizzato "$uicide - Live in Berlin" nel 1995 e quindi "Moments of Truth" nel 2007. Altre informazioni nel sito ufficiale.

"The Machine That Cried"

  Subversion   - Un'oscura band francese responsabile di un solo album e presto svanita nel nulla. Schierati a sette, ma con diversi ospiti a supporto come il chitarrista Michel Bonnecarrère (ex Zoo), i Subversion realizzano il loro disco omonimo per l'etichetta Pôle nel 1976: a lungo dimenticato, è una raccolta di nove tracce improntate a un curioso mix di tranquillo jazz-rock condito da umori folk e pop, ben suonato ma raramente memorabile. La musica, con solo un paio di pezzi cantati, si articola in genere sulle chitarre acustiche di Eric Mallet e Jean-Luc Fauvele, spesso affiancate dal sax di Pierre-Jean Gidon o dal piano elettrico (J. Hurel), con un'attitudine singolarmente rilassata e mai troppo complessa. Ne è un felice esempio la bella e malinconica apertura di "L'arbre mort", cantata a dovere dal bassista Chiarutini, con inserti di synth e morbide aperture di tastiere nello schema dominato dalla chitarra acustica: è forse l'unico omaggio della sequenza a un certo prog sinfonico-romantico più delicato. Episodi come "Mektoub", invece, ci mostrano l'attitudine squisitamente jazz del gruppo: sale in cattedra il sax tenore di Gidon, ben integrato dalle chitarre e dal piano elettrico, ma l'insieme ha sempre un sapore quasi "lounge", non particolarmente eccitante e per certi versi ancora legato agli anni Sessanta. "Kaliani", se non altro, riesce a creare un'atmosfera più composita, tra il piano elettrico e la chitarra, con l'apporto in questo caso del violoncello di Eliot Bailen, fino all'impennata del sax che porta a conclusione la traccia. Il violoncello torna anche nell'incipit di "Mort d'un rat", seguito poi dal sax soprano e dalle chitarre, ma forse il momento più moderno è "4,5,6": ancora costruito sulla chitarra, il brano ha un colore fusion più pronunciato, con un buon lavoro congiunto di basso e batteria e la chitarra elettrica che subentra nell'ultima parte alzando un po' la temperatura. "Reverie" è invece un altro esempio della vena camaleontica della band, che passa da un ritmo ballabile con pianoforte e chitarra in evidenza a un solenne inserto di tastiere, prima di tornare ancora al jazz con piano e sax protagonisti, in un'alternanza che lascia interdetti. E' quel tipo di eclettismo, magari gradevole, che però non soddisfa mai fino in fondo. Non manca neppure una buffa canzoncina come "Le tube de l'été", che ironizza sul fenomeno dei tormentoni canori di ogni estate, a definire meglio lo spirito di musicisti che, seppur dotati, danno l'impressione di non prendersi troppo sul serio. Disco e band, comunque, cadono rapidamente nell'oblio fino alla ristampa in CD di Paisley Press nel 2018.

"Subversion"

  Symphonic Slam   - Personaggio singolare, Timo Laine, finlandese di nascita ma poi sempre vissuto tra Canada e Stati Uniti, è un chitarrista eclettico di molteplici esperienze. Suona in alcune band dimenticate e soprattutto si esibisce dal vivo con svariati artisti di fama, tra i quali Rolling Stones, Chuck Berry, B.B. King e Tina Turner, ma viene ricordato soprattutto come il primo musicista ad aver messo a punto la famosa guitar synthesizer, strumento che ovviamente diventa protagonista nei suoi dischi. "Symphonic Slam" è il gruppo e il titolo di questo primo esperimento, registrato a Toronto e pubblicato nel 1976. In formazione triangolare con John Lowery (batteria) e David Stone (tastiere), Laine scrive testi e musica di un album a lungo dimenticato, ma in realtà piuttosto interessante anche per il notevole tasso tecnico e la freschezza esecutiva. Si compone di dieci episodi ben suonati, anche se abbastanza ondivaghi: in generale, fin dall'attacco di "Universe" predomina un prog chitarristico con tracce di Pomp Rock, contrassegnato da toni maestosi e buone parti vocali dello stesso Laine, convincente anche in qualità di cantante. Il ruolo del nuovo strumento (ciascuna corda della Les Paul di Laine è collegata a un diverso synth) è sicuramente l'elemento centrale della sequenza, ma c'è spazio anche per le tastiere di Stone in brani di sicuro impatto come "Every Time" o la più enfatica "Let It Grow", che mettono in luce la preparazione tecnica del trio. Nel vivace strumentale "Days", contrassegnato da continui cambi di tempo, sale al proscenio anche il batterista Lowery, protagonista di un lungo assolo, ma nella sequenza non mancano momenti diversi: da "I Won't Cry", dalla ritmica quasi funky, a tirati rock'n'roll come "Modane Train", fino all'hard rock di "How Do You Stand", che mostrano la versatile vena del chitarrista, ancora eccellente vocalist in "Summer Rain", canzone di bella atmosfera costruita sul pianoforte. Un disco che forse non è un classico, ma resta ancora oggi di gradevole ascolto. In seguito, dopo un rifiuto dell'etichetta A&M, Laine produce in proprio il secondo album "Timo SS II" (1978), realizzato con la nuova sigla Timo Laine-Symphonic Slam. Gli ingredienti sono simili a quelli dell'esordio, ma questa volta i nove pezzi sono ancora più inseriti nel filone del tipico Pomp Rock americano. Dopo un lungo silenzio, e in seguito alla ristampa in cd della Musea (2001), il chitarrista è tornato attivo realizzando nuovi album da solista. Altre informazioni nel sito ufficiale.

"Symphonic Slam"

  Syrius   - Curiosa la storia di questa formazione ungherese, fondata a Budapest nel 1962 dal sassofonista Zsolt Baronits. Dopo alcuni singoli in stile Beat pubblicati tra il 1967 e il 1969, il gruppo cambia pelle con l'aggiunta di quattro nuovi elementi tra i quali spiccano il tastierista László Pataki e un secondo fiatista come Mihály Ráduly. Durante un tour in Australia nel 1971 il quintetto pubblica un album per l'etichetta Spin (distribuzione Festival Recording), intitolato semplicemente "Syrius", che solo l'anno seguente esce anche in patria con il titolo "Az ördög álarcosbálja / Devil's Masquerade" (). Composto di sette tracce, con liriche in lingua inglese, il disco rimane tra i migliori esempi della scena prog ungherese: un rock aperto al jazz, tecnicamente ineccepibile e ricco di gustose variazioni che rendono l'ascolto sempre stimolante. Ci sono schegge sperimentali qua e là, come nell'apertura di "Concerto for a Three-Stringed Violin and Five Mugs of Beer", con sax e violino in evidenza fino alla dissonanza, ma il meglio sta comunque nei brani che seguono. "Crooked Man", ad esempio, è un brillante manifesto prog-jazz con la voce del bassista Miklós Orszáczky, prima filtrata e poi dispiegata a dovere sulla base dei fiati (sax e flauto) e del piano sempre creativo di Pataki, in un insieme che ricorda la scena di Canterbury. Il binomio fiati-tastiere domina anche la complessa title-track, aperta da un organo quasi liturgico prima che i fiati irrompano con vivaci fraseggi nella trama, sviluppata tra melodia e ficcanti breaks con il sax in grande spolvero. Una ritmica nervosa che si distende solo sul canto solista caratterizza "Psychomania", col grintoso refrain vocale e il continuo incrocio tra i fiati e l'organo, mentre la bella "I've Been This Down Before" è una morbida ballata introdotta dal flauto di Ráduly che a tratti richiama i Procol Harum, con pregevoli intrecci strumentali tra i fiati e un piano virtuoso. Se "Observations Of an Honest Man" è un breve interludio cullato da piano e flauto, la chiusura della lunga "In the Bosom Of A Shout" recupera il jazz-rock più affilato all'insegna di sax e piano, con la batteria di András Veszelinov e le percussioni protagoniste insieme al basso dei momenti più intensi: il flauto asseconda splendidamente la voce nell'ultima parte fino a spegnersi dolcemente. In seguito però il gruppo perde pezzi, e solo nel 1976 esce un secondo disco intitolato "Széttört álmok", che forse non a caso significa "sogni infranti". Dell'album precedente restano solo Baronits e il batterista: trionfano i fiati, all'insegna di un funky-jazz con venature soul piuttosto commerciale, seppure suonato con buona verve fin dall'incipit di "Hajnali ének", dove si segnala anche la chitarra solista di Tátrai Tibor. A parte qualche ballata un po' insipida ("Mint április"), c'è spazio per il piano elettrico ancora in combutta con la chitarra ("A láz"), ma il pezzo più trascinante è forse "Kinyújtom A Kezem", frizzante parata di fiati e piano elettrico, sostenuti ad arte dalla briosa sezione ritmica. Il gruppo si scioglie infine nel 1978. Ristampe in CD a cura di Gong, Mambo ed Enigmatic, quest'ultima con il bonus di registrazioni australiane inedite.

"Az ördög álarcosbálja / Devil's Masquerade"

"Crooked Man"